In questo post vengono descritti 5 racconti didattici di Milton Erickson (1901 – 1980), tratti dal libro “La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici di Milton H. Erickson” a cura di Sidney Rosen (1983).
Erickson aveva accettato di essere il coautore del libro, ma non visse abbastanza a lungo per seguirlo oltre la fase di progettazione. Sidney Rosen ha raccolto oltre cento dei racconti didattici di Erickson, li ha riprodotti testualmente suddividendoli per argomenti in diversi capitoli.
I racconti didattici di Erickson sono strumenti terapeutici raffinatissimi, intesi ad istillare nel paziente i semi di una nuova visione di sé e del mondo.
DA Rosen
Ogni racconto ha una struttura e una trama spesso con un finale a sorpresa. Il modo migliore in cui un terapeuta può scegliere un racconto è quello di farlo per mezzo delle proprie libere associazioni. Occorre innanzittutto individuare uno schema interessante, studiando attentamente il paziente attraverso le sue reazioni e nei suoi sintomi.
Come costruire un racconto
Erickson istruiva i terapeuti sul modo di costruire un racconto:
“Prendete un libro appena uscito di un autore che sapete che è bravo. Leggete per primo l’ultimo capitolo. Fate congetture sul contenuto del capitolo precedente. Fate congetture in tutte le direzioni possibili. Vi sbaglierete in molte delle vostre congetture.
Poi leggete quel capitolo, e fate congetture su quello ancora precedente. Si può leggere un buon libro dall’ultimo al primo capitolo, facendo congetture per tutto il percorso”.
Erickson affermava che questo è non solo un metodo per imparare a costruire una storia, ma anche un modo efficace di infrangere le rigidità del pensiero e imparare a congetturare liberamente.
5 Racconti didattici di Milton Erickson
#1. Una grande scorpacciata senza senso di colpa
“Lei pesa troppo, e ha fatto diete su diete, e non è servito a niente”. La paziente mi dice che è in grado di stare a dieta per una settimana, o due settimane, o persino tre settimane, e poi getta la spugna e si rimpinza. Al che si dispera e si rimpinza ancora di più.
“Bene, le darò una prescrizione medica. Continui la dieta che le ha dato il medico nel passato. La continui per due settimane, o anche tre settimane, se ci riesce. E poi, l’ultima domenica della terza settimana, si rimpinzi in modo infernale, perché gliel’ha prescritto il medico”.
“Non è possibile che si rimpinzi tanto da annullare tutto quello che ha perso in tre settimane. E si può rimpinzare senza senso di colpa, perché questa di rimpinzarsi tutta la giornata di domenica è una prescrizione medica. E il lunedì seguente, torni a dieta. La continui per tre settimane, se ci riesce, e poi si faccia un’altra grande scorpacciata senza senso di colpa”.
Il primo tra i racconti didattici di Erickson descrive una prescrizione paradossale. Le prescrizioni paradossali trasformano la manifestazione del sintomo da inconsapevole a volontaria, togliendo così il piacere spontaneo di farlo e permettendo l’abbandono di modalità comunicative disfunzionali.
Erickson prescrive la medesima soluzione già scelta e descritta dal paziente, aggiungendo qualche differenza di scena; modificando i tempi, dando così l’input al cambiamento. La paziente prende coscienza del proprio comportamento, lo segue perché prescritto dal terapeuta e ha modo di analizzare coscientemente il reale bisogno che il suo comportamento vuole soddisfare per poi individuare una possibile modalità alternativa.
Per Erickson tutti abbiamo dentro di noi le capacità e le risorse per risolvere i problemi. Talvolta tutto ciò di cui il paziente ha bisogno è “semplicemente” uno stimolo fornito da un piccolo cambiamento.
#2. Voglio pesare 60 chili
“Peso 80 chili. Ho fatto con successo centinaia di diete seguendo prescrizioni mediche. E voglio pesare 60 chili. Ogni volta che arrivo a 60 chili, mi precipito cucina per festeggiare il successo. E rovino tutto, immediatamente. Ora peso 80 chili. Può utilizzare l’ipnosi per aiutarmi a scendere a 60? è la centesima volta che peso di nuovo 80 chili”.
Le dissi che sì, potevo aiutarla a scendere di peso per mezzo dell’ipnosi ma che quello che avrei fatto non le sarebbe piaciuto. Disse che voleva pesare 60 chili e che non le importava quello che facevo. Le dissi che sarebbe stato piuttosto spiacevole.
“Va bene”, dissi io. “Voglio la promessa solenne che seguirà esattamente i miei consigli”. Mi fece molto prontamente questa promessa, e io la feci entrare in trance. Le spiegai ancora una volta che il mio metodo non sarebbe stato di suo gradimento, e le chiesi se mi prometteva in modo assoluto di seguire i miei suggerimenti. Me lo promise.
Allora le dissi: “Che mi ascoltino sia il suo inconscio che il conscio. Ecco come faremo. Il suo peso attuale è di 80 chili. Voglio che lei acquisti dieci chili, e quando peserà 90 chili, sulla mia bilancia, potrà iniziare a calare”.
Mi supplicò letteralmente, in ginocchio, di liberarla dalla sua promessa. E a ogni etto che aumentava, insisteva sempre più perché la autorizzassi a iniziare a calare.
Quando arrivò a 86 chili, era notevolmente angosciata. Quando arrivò a 88, supplicò e implorò di essere liberata dalla sua promessa. A 89 disse che era abbastanza vicina ai 90, ma io insistetti per i 90 chili. Quando raggiunse i 90 chili, era felicissima di poter iniziare a calare. E quando arrivò a 60, disse: “Non aumenterò mai più”.
Il secondo tra i racconti didattici di Erickson descrive un’ordalia terapeutica. Le ordalie terapeutiche, oltre ad attirare con prepotenza l’attenzione e il disappunto del paziente, associano una prescrizione molto sgradevole al comportamento che il paziente vuole eliminare; la persona è così naturalmente costretta a trovare dei pattern relazionali diversi perché il continuare con le solite transazioni viene reso insopportabilmente sgradevole.
Il modello della paziente era stato calare e aumentare. Erickson, oltre a ribaltare il modello facendola aumentare e calare, fa associare alla paziente l’alimentazione eccessiva con la terribile agonia di aumentare di dieci chili.
#3. I due Gesù
In reparto avevo due Gesù. Passavano tutta la giornata a spiegare: “Io sono Gesù”. Attaccavano bottone con tutti e spiegavano: “Il vero Gesù sono io”.
E così misi John e Alberto su una panca e dissi loro: “Seduti qua, voi due. Dunque, ognuno di voi due dice di essere Gesù. Adesso, John, voglio che tu spieghi ad Alberto che Gesù sei tu, non lui. E tu Alberto, spiega a John che tu sei il vero Gesù, e che lui non lo è; lo sei tu’’.
Li tenni lì seduti su quella panca a spiegarsi vicendevolmente dalla mattina alla sera che erano il vero Gesù. E circa un mese dopo, John disse: “Gesù sono io, e quel matto di Alberto dice che Gesù è lui”. Io dissi a John: “Vedi, John, tu dici la stessa cosa che dice lui. E lui dice la stessa cosa che dici tu.
Ora, io penso che uno di voi due dev’essere pazzo, perché di Gesù ce n’è uno solo”. John ci pensò su per una settimana. “Io dico le stesse cose che dice quel pazzo maniaco”, disse. “Lui è matto e io dico le stesse cose che dice lui. Ma allora devo essere matto anch’io; e io non voglio essere matto”.
Io dissi: “Bene, io non penso che tu sei Gesù. E tu non vuoi essere matto. Ti farò lavorare nella biblioteca dell’ospedale”. Lavorò lì alcuni giorni di seguito, poi venne da me e mi disse: “C’è qualcosa di terribilmente sbagliato: c’è il mio nome su ogni pagina di ogni libro”.
Aprì un libro e mi mostrò le lettere che componevano JOHN THORNTON; su ogni pagina trovava il suo nome. Fui d’accordo con lui e gli feci vedere come su ogni pagina apparisse il nome MILTON ERICKSON. Mi feci aiutare da lui a trovare il nome del dottor Hugh Carmichael, il nome di jim Glitton, il nome di Dave Shakow.
In realtà, su quella pagina potevamo trovare qualsiasi nome cui lui pensasse. “Ma queste lettere non appartengono a un nome; appartengono a una parola! “, disse John. “Proprio così”, dissi io. John continuò a lavorare in biblioteca. Sei mesi più tardi se ne tornò a casa, liberato dalle sue identificazioni psicotiche.
- Bucay, Jorge (Autore)
Erickson, in qualità di psichiatra, per anni ha prestato servizio in una clinica dove ha avuto modo di entrare in contatto con persone schizofreniche. In presenza di patologie così importanti e invalidanti, la psicoterapia non sembra funzionare se non accompagnata da psicofarmaci.
Quando il terapeuta si unisce al paziente nelle sue allucinazioni, il paziente assume il ruolo del terapeuta; questo scambio fittizio porta il paziente, ora “terapeuta”, a cercare di fare vedere al “paziente”, prima terapeuta, che il tipo di pensiero in cui entrambi si erano immersi, è effettivamente delirante.
Quando ascoltiamo qualcuno parlare, la consapevolezza che l’altra persona sta utilizzando un linguaggio diverso dal nostro, è fondamentale. È poco funzionale cercare di comprendere un linguaggio nei termini di un altro linguaggio (quello di chi ascolta), occorre capire il paziente nella sua lingua.
#4. Sono un alcolizzato. Voglio smettere
Un uomo ricchissimo venne da me e mi disse: “Sono un alcolizzato. Voglio smettere”. “Bene”, dissi, “ci sono alcune cose che vorrei sapere su di lei. Lei è sposato?”. “Sì”, disse, “molto sposato”.
“Come sarebbe a dire ‘molto sposato’?”.
“Beh, noi possediamo una casetta per l’estate, a dieci miglia dall’ultimo luogo abitato. È un posto bellissimo. Potrei permettermi di sistemarlo proprio benissimo. Mia moglie e io spesso passiamo lì due o tre settimane. Possiamo pescare le trote in un torrente mettendo le canne fuori dalla finestra della camera da letto. Non c’è il telefono. Siamo a dieci miglia dalla civiltà. È arredata meravigliosamente. Qualsiasi tipo di cibo e di bevanda alcolica che si può comprare, là c’è. E ogni estate, mia moglie e io passiamo due, circa due o tre settimane lì, nudi, godendoci veramente la vita”.
“Bene”, dissi, “sarà molto facile per lei smettere di essere un alcolizzato. Faccia andare sua moglie in macchina su alla casetta, le faccia raccogliere tutte le bevande alcoliche, e gliele faccia mettere in macchina. Metta in macchina anche i vestiti. Tolga qualsiasi altro indumento che si trova lì e li riporti a Phoenix.
“Può trovare un amico che la accompagni lì la sera, e può dare tutti i vestiti all’amico, da portare via. E voi due potete passare due, tre meravigliose settimane, vivendo di trote, e liberi dall’alcol. So che lei non farebbe dieci miglia a piedi nel deserto per trovare una bottiglia di alcol”.
“Dottore, ho paura di essermi sbagliato sul fatto di voler smettere di bere”, disse. Però quello sarebbe stato il modo perfetto per smettere. E il vostro alcolizzato deve essere sincero.
Sidney Rosen commenta: Il terapeuta, una volta accettato un paziente, si assume la responsabilità del suo miglioramento. Se, in quanto terapeuta, accetto un alcolizzato come paziente, questo diventa “il mio alcolizzato”; viceversa, se il paziente si rifiuta di seguire la prescrizione, non viene accetto come paziente, e rimase “il proprio alcolizzato”.
#5. Il potere dell’inconscio va riconosciuto, non è magia
Harold, andò da un veggente che gli disse dei dettagli intimi sulla sua famiglia; lui ne fu enormemente impressionato. Senza che Harold lo sapesse (e Harold conosceva molto bene la mia famiglia), io scrissi un falso nome per mio padre, per mia madre, per i miei Otto fratelli; scrissi anche errati i rispettivi luoghi di nascita e diedi molti falsi particolari.
Misi tutto ciò in una busta, e la feci mettere a Harold in una tasca interna della sua giacca. Poi andammo insieme dal veggente. Con stupore di Harold, il veggente mi disse che il nome di mio padre era Peter, il nome di mia madre era Beatrice, e diede tutti i falsi nomi e i falsi luoghi; diede tutti i falsi dati. Non prestò alcuna attenzione a Harold, e suppongo che abbia pensato che la sua espressione di sbalordimento fosse dovuta alla sorpresa.
Diede tutte le false informazioni, e poi ce ne andammo. “Ma il nome di tuo padre è Albert”, mi disse Harold. “Come hai fatto a fargli dire Peter?”. “Ho pensato continuamente: ‘Peter, Peter, Peter’ e: ‘Beatrice, Beatrice, Beatrice’ “, risposi. E così Harold smise di credere ai veggenti.
Il potere dell’inconscio va riconosciuto, non è magia. Riconoscere che nel nostro inconscio sono immagazzinate infinite informazioni e poi capire il processo mentale che ci permette di accedere alle nostre conoscenze, lascia la porta aperta alla possibilità di capire, conoscere, cambiare; infonde fiducia in noi stessi e nelle nostre potenzialità, nozione importante per il terapeuta e per il paziente.
RIF. Tratto (con modifiche e adattamenti al post) dal libro: “La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici di Milton H. Erickson” a cura di Sidney Rosen
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