Jerome Bruner
(1915 – 2016) è stato uno psicologo statunitense che ha contribuito in modo determinante allo sviluppo della psicologia cognitiva e della psicologia culturale nel campo della psicologia dell’educazione
Dal 1945 al 1971 insegnò psicologia ad Harvard, dove fondò il Centro per gli Studi Cognitivi. Nel 1974 si trasferì in Inghilterra (a Oxford) e tornò negli Stati Uniti solo nel 1981. Insegnò nuovamente ad Harvard, per poi passare alla New School for Social Research di New York e, infine, alla New York University.
Dà inizio ad un nuovo indirizzo noto come New Look che sostiene la continuità tra l’attività percettiva e quella concettuale. Le ricerche sviluppate da Bruner durante gli anni ’60, sui processi di apprendimento, sui contenuti, sui modi e gli strumenti dell’insegnamento, ebbero grande diffusione nel mondo.
Bruner focalizza la sua attenzione sull’apprendimento e sull’uso del linguaggio e sulla incidenza di quest’ultimo sullo sviluppo della mente. Il linguaggio verbale, introduce il bambino nei modi di ragionare (che spesso coincidono con i “modi del dire”) caratteristici della sua cultura di appartenenza. E se è vero che la cultura è creazione dell’uomo, è ugualmente vero che essa plasma la mente.
L’attività mentale non è solitaria, è invece vissuta con gli altri, fatta per essere comunicata e sostenuta da codici culturali. Grazie a questi studi Jerome Bruner approda ad una nuova idea della mente e del suo sviluppo.
Le proprietà distintive della vita psichica, secondo Bruner sono da ricercarsi nella vita sociale e culturale delle persone, nei loro tentativi di costruire percezioni e resoconti dell’esperienza socialmente condivisibili.
L’approfondimento della ricerca di Jerome Bruner, rispecchiando il filone della psicologia cognitiva, è contenuto soprattutto nei seguenti scritti:
- Verso una teoria dell’istruzione
- La ricerca del significato
- Il processo educativo. Dopo Dewey
- La cultura dell’educazione
Di seguito alcuni “estratti” rappresentativi del pensiero di Jerome Bruner
I campi del sapere e la loro rappresentazione
Ogni idea, ogni problema o insieme di cognizioni, possono essere presentati in termini sufficientemente semplici da consentire ad ogni scolaro di comprenderli in una forma riconoscibile.
La struttura di ogni campo del sapere può essere caratterizzata secondo tre criteri, ciascuno dei quali influisce sulla capacità da parte del discente di dominare un determinato campo: il modo in cui viene rappresentata, la sua economia e la sua effettiva efficacia. Modo, economia ed efficacia variano in relazione alle diverse età, al diverso “stile” dei discenti e alle diverse materie.
Ogni campo del conoscere (ovvero ogni problema all’interno di tale campo) può essere rappresentato in tre modi:
- Mediante azioni adatte al raggiungere un certo risultato (rappresentazione attiva).
- Attraverso immagini, che riassumono, o grafici che, senza definire in maniera completa un concetto, lo rappresentano (rappresentazione iconica).
- Tramite proposizioni logiche, che derivano da un sistema simbolico (rappresentazione simbolica).
Tratto da: “Verso una teoria dell’istruzione” di Jerome Bruner
Gli “universali del linguaggio”
Per “Universali del linguaggio” s’intendono delle caratteristiche o proprietà dei linguaggi naturali, comuni a tutti i linguaggi.
Per chiarire il concetto di “universale”, si può portare un esempio dalla lista di “universali” trovata da Greenberg nell’analisi di campioni linguistici e delle grammatiche di trenta linguaggi storici dei più lontani gruppi linguistici (dal basco al finlandese, dall’italiano allo swahili, al thai, maori, giapponese e così via).
In base a tale analisi, Greenberg elenca ben quarantacinque universali, che si riferiscono soprattutto all’ordine di morfemi e parole nelle frasi. Per esempio, dei sei diversi ordini possibili di soggetto (s), verbo (v) e oggetto (o) nelle frasi enunciative (svo, sov, vos, vso, osv, ovs) Greenberg ne riscontra nei trenta linguaggi soltanto tre: svo, osv, ovs, e, quindi, enuncia il seguente universale:
“Nelle frasi dichiarative con soggetto nominale e oggetto, l’ordine dominante è quasi sempre quello in cui il soggetto precede l’oggetto”.
Tratto da: “Verso una teoria dell’istruzione” di Jerome Bruner
Il potere formativo della scoperta
Nella maggior parte dei casi la scoperta, sia che venga effettuata da uno scolaretto o da uno scienziato, consiste in un riorientamento o in una trasformazione delle nozioni possedute, in modo da consentire di spingersi al di là di esse, verso nuovi concetti. In altre parole, scoprire significa trovare la struttura più adatta, il significato più profondo.
In secondo luogo, riflettiamo adesso sui vantaggi che il fanciullo trae dall’apprendere attraverso le proprie scoperte. Quei vantaggi si rivelano sotto forma di maggiore potenzialità intellettuale, maggiore ricompensa psicologica, migliore tecnica dell’indagine e affinamento dei processi mnemonici. Affinché il fanciullo sviluppi la propria potenzialità intellettuale, occorre che venga incoraggiato a scoprire rapporti e regolarità nell’ambiente che lo circonda. Per far ciò egli deve essere armato della sensazione che vi è qualcosa da scoprire e che deve trovare da sé il modo di effettuare la scoperta.
Appare chiaro come, man mano che l’apprendimento progredisce, esista un momento in cui è senz’altro consigliabile allontanarsi dalle ricompense estrinseche, quali ad esempio una lode dell’insegnante, passando a ricompense intrinseche, come quelle inerenti alla soluzione di un complesso problema per conto proprio.
Un altro dei motivi intrinseci dell’apprendere che la scuola deve cercare di mobilitare in misura maggiore di quanto abbia fatto finora, per rendere più efficiente l’insegnamento, è il desiderio di competenza.
Generalmente, per competenza s’intende una capacità già acquisita. Tuttavia la competenza può essere concepita anche in senso dinamico, quale aspirazione a conseguirla, e con riferimento all’energia impiegata per conseguirla.
La competenza intesa in questo secondo senso può essere considerata uno dei motivi intrinseci dell’apprendere, dato che lo svolgimento del processo al quale ci si sottopone per conseguirla soddisfa un bisogno intimo: il desiderio di imparare a fronteggiare e dominare questo o quel settore dell’ambiente in cui viviamo.
Osservando i bambini o i piccoli di varie specie animali, ci rendiamo conto, appunto, che gran parte dei loro trastulli rappresentano, in sostanza, forme di auto-addestramento a fronteggiare l’ambiente.
Sebbene il desiderio di competenza possa non aver quale oggetto naturale gli apprendimenti scolastici, è tuttavia probabile che il grande eccesso di energia riscontrato nei bambini che s’imbattono in una materia o in un argomento che a loro interessa abbia una natura consimile.
Tratto da: “La sfida pedagogica americana” di Jerome Bruner
Insegnare
Come insegnare una data materia?
Se si tratta della geometria risponderemo prontamente che insegneremo al discente quegli assiomi e teoremi che massimizzeranno la sua capacità di andare al di là dell’informazione data in qualsiasi problema possa trovarsi di fronte.
In geometria, un problema è semplicemente un’enumerazione incompleta, che contiene elementi ignoti.
Diciamo: C’è una figura a tre lati: un lato misura x, l’altro y, l’angolo tra i due è di z gradi, e il problema è trovare la lunghezza del terzo lato e l’ampiezza degli altri due angoli, come pure l’area del triangolo.
Si deve, in breve, andare al di là dell’informazione data.
Intuitivamente, sappiamo che se la persona ha appreso il sistema di codificazione formale, sarà in grado di affrontare la questione.
Tratto da: “Psicologia della conoscenza” di Jerome Bruner
Il potere culturale della deprivazione
Il concetto di deprivazione deve aver avuto una straordinaria presa sull’immaginazione degli americani; come ha osservato Harrington in quello stesso periodo, all’inizio degli anni Sessanta, gli americani “scoprivano” l’esistenza in mezzo a loro della povertà.
Ma, intenzionalmente o meno, la nuova deprivazione veniva giudicata a fronte di uno standard di “cultura” che era implicitamente derivato da un’idealizzazione della cultura della classe media americana. In questa versione della vita familiare, l’educazione dei bambini consisteva nell’interazione armoniosa di una madre casalinga a tempo pieno con il suo bambino ben nutrito, a cui venivano offerte ampie opportunità di prendere iniziative proprie.
Non essere all’altezza di questo modello idealizzato era “deprivazione culturale”.
Comparvero presto progetti che si proponevano di insegnare alle madri povere a parlare di più e a giocare di più con i loro bambini, ad affidare loro compiti che richiedessero iniziativa autonoma e così via – in breve a adeguarsi nel comportamento nei confronti dei figli al modello delle madri idealizzate della classe media. Furono progetti che produssero qualche risultato reale. Poiché è vero, e non sorprende, che l’educazione infantile condotta secondo lo stile della classe media produce bambini simili a quelli della classe media.
Tratto da: “La cultura dell’educazione” di Jerome Bruner
Il “sopravvento dell’oggetto”
Voi cominciate a scrivere una poesia. Ben presto essa, la poesia, comincia a sviluppare delle richieste alle quali non potete sottrarvi: la metrica, le strofe, l’architettura simbolica.
Sembra così che voi, creatori della poesia, la stiate servendo. Oppure, per fare un altro esempio, state lavorando sulle proprietà note delle singole fibre nervose e sulla loro sinossi e state elaborando un modello formale per rappresentare queste proprietà ben presto il modello assume un ruolo di guida.
Oppure, sempre nel campo della ricerca scientifica, siete insoddisfatti per un esperimento che si presenta difficile e complesso; e voi dite che esso, l’esperimento, abbisogna di un altro gruppo di controlli per rinnovare la verifica e constatare la realtà degli effetti. È l’oggetto che prende il sopravvento: ed è proprio a questo punto che si entra in una seconda fase creativa.
Ho chiesto ad una dozzina di miei amici, fra le persone più creative e produttive ch’io conosca, se avessero compreso questo mio problema del “sopravvento dell’oggetto”, e se avessero mai riscontrato questo fenomeno nel loro lavoro.
Quasi tutti mi risposero più o meno imbarazzati, confessandomi che di solito uno non si mette a pensare a queste cose, anche perché sono strettamente soggettive: “Ciò avviene, quando sai che sei in ballo, e, bene o male, la cosa stessa ti costringerà a finire. In un lavoro lungo, questo sopravvento dell’oggetto può avere luogo parecchie volte”.
Vi è qualcosa di strano in questo fenomeno: l’uomo esteriorizza un oggetto, un prodotto dei suoi pensieri, e lo tratta come se fosse “al di fuori”.
Freud osservò, a proposito della proiezione, che gli uomini sono più capaci di avere a che fare con stimoli esterni che con stimoli interni. Così avviene anche nel lavoro creativo: grazie all’oggettivazione, il creatore sviluppa la propria essenza, la propria autonomia, e nello stesso tempo la serve.
L’impeto creativo, stando là, di fronte al soggetto, può essere più facilmente affrontato e sistemato, ed è in questa sistemazione che emergono nuovi impulsi e nuovo materiale, prima inconsci ed inaccessibili.
Esiste anche un’altra possibilità. Osservando i bambini impegnati nell’apprendimento della matematica, sono stato colpito più d’una volta dall’economia che essi realizzano, quando raggiungono “buone rappresentazioni”.
Nella teoria dei gruppi, ad esempio, è molto difficile determinare concettualmente o astrattamente se un insieme di trasformazioni costituisca un gruppo chiuso di modo che ogni possibile combinazione di quelle trasformazioni possa essere espressa da una sola di esse.
Ecco allora l’esigenza di una matrice, che “rappresenti” sulla carta o sulla lavagna tutte le combinazioni che possono venire in mente: in questo modo lo studente può guardare alla struttura del gruppo come ad un tutto e procedere oltre, al fine di vedere se abbia proprietà interessanti e isomorfismi familiari.
La buona rappresentazione, allora, costituisce un sollievo dalla passione intellettuale.
Tratto da: “Il conoscere. Saggi per la mano sinistra” di Jerome Bruner
Condividere per conoscere
Al pari dell’adulto, il bambino viene visto come qualcuno che possiede delle “teorie” più o meno coerenti non solo sul mondo, ma anche sulla sua stessa mente e sul modo in cui funziona. Queste teorie ingenue diventano congruenti con quelle dei genitori e degli insegnanti non attraverso l’imitazione, non attraverso la didattica, ma mediante il dialogo, la collaborazione e la negoziazione.
La conoscenza è qualcosa che viene condivisa con il discorso, all’interno di una comunità “testuale”.
Le verità non derivano da un’autorità, testuale o pedagogica, ma da dimostrazioni, argomentazioni e ricostruzioni. Questo modello d’educazione è fondato sulla reciprocità e sulla dialettica, è più rivolto all’interpretazione e alla comprensione che al raggiungimento di una conoscenza fattuale o di una prestazione specializzata.
Questa visione interattiva non è semplicemente “centrata sul bambino”, è caratterizzata anche da un atteggiamento molto meno condiscendente verso la mente del bambino. Si sforza di costruire uno scambio, un’intesa fra l’insegnante e il bambino: di trovare nelle intuizioni del bambino le radici della conoscenza sistematica, come invitava a fare Dewey.
Tratto da: “La cultura dell’educazione” di Jerome Bruner
Apprendimento e indirizzi di ricerca
Quattro recenti indirizzi di ricerca hanno arricchito la prospettiva sull’apprendimento e sull’insegnamento. La prima ha a che fare con il modo in cui i bambini sviluppano la loro capacità di “leggere altre menti”, di arrivare a sapere cosa pensano o sentono gli altri. Solitamente viene descritta come ricerca sull’intersoggettività.
L’intersoggettività ha inizio con il piacere che provano il neonato e la madre nelle prime settimane di vita a stabilire un contatto con gli occhi, si trasforma presto l’attenzione che i due prestano insieme con oggetti comuni, e culmina nella prima fase prescolare in cui fra la mente del bambino e quella di chi se ne prende cura si realizza un incontro grazie ai primi scambi di parole: una conquista che non finisce mai di realizzarsi.
Il secondo filone di ricerca riguarda la comprensione da parte del bambino degli “stati intenzionali” dell’altro: le sue convinzioni, le sue promesse, le sue intenzioni, i suoi desideri, in breve le sue teorie della mente, definizione con cui spesso ci si riferisce a questa ricerca.
È un programma d’indagine su come i bambini si formano delle opinioni circa il modo in cui gli altri arrivano ad avere o ad abbandonare vari stati mentali. Questo programma si occupa in modo particolare della selezione che viene operata dal bambino fra le credenze e le opinioni altrui che giudica vere e giuste e quelle che ritiene false o sbagliate: nel corso di questo studio i ricercatori hanno scoperto molti aspetti curiosi a proposito delle idee del bambino piccolo sulle “false credenze”.
Il terzo filone è rappresentato dallo studio della metacognizione, vale a dire cosa pensano i bambini dell’apprendere, del ricordare e del pensare e come la riflessione sulle proprie operazioni cognitive influenza i procedimenti mentali di un individuo.
Gli studi sull’apprendimento collaborativi e sulla risoluzione dei problemi costituiscono il quarto filone di ricerca, che si occupa del modo in cui i bambini esprimono e correggono le proprie credenze nel dialogo.
Tratto da: “La cultura dell’educazione” di Jerome Bruner
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