Gli esperimenti psicologici coinvolgono generalmente partecipanti umani o animali. I partecipanti umani rispondono spesso a stimoli visivi, uditivi o di altro tipo, seguendo le istruzioni fornite da uno sperimentatore; gli animali possono essere similmente “istruiti”, ricompensando le risposte appropriate.
Molte teorie psicosociali sono fondate su ricerche sperimentali, ovvero costruite osservando gli esiti della manipolazione sistematica, effettuata in base a specifiche ipotesi, di “variabili indipendenti” e il suo effetto sulle “variabili dipendenti”.
Gli esperimenti comportamentali con uomini e animali in genere misurano il tempo di reazione, le scelte tra due o più alternative e/o la frequenza o l’intensità della risposta; possono anche registrare movimenti, espressioni facciali o altri comportamenti.
Gli esperimenti psicofisiologici misurano l’attivazione del cervello durante la presentazione di uno stimolo, utilizzando metodi non invasivi come EEG, PET o simili.
Il controllo delle variabili e del potenziale bias dello sperimentatore, il controbilanciamento dell’ordine dei compiti sperimentali, l’adeguata dimensione del campione e una corretta analisi statistica sono fondamentali per gli esperimenti psicologici.
20 Esperimenti psicologici più famosi della storia
#1. L’esperimento sul Conformismo (Solomon Asch)
In questo esperimento, condotto negli anni ’50, lo psicologo Solomon Asch, si propose di studiare in laboratorio i fattori che inducono un soggetto a resistere o ad arrendersi alle pressioni di un gruppo coeso di estranei, quando quest’ultimo esprime giudizi sulla realtà che contraddicono le sensazioni del soggetto stesso.
Asch invitò 8 studenti di un college a partecipare a una ricerca sulla discriminazione visiva. I soggetti dovevano osservare un pannello e stabilire, per 18 volte, quale fra tre linee verticali che vi erano disegnate fosse di lunghezza uguale a una quarta linea di riferimento.
In ciascuna prova, una delle linee di confronto era della stessa lunghezza della linea di riferimento, mentre le altre due erano chiaramente diverse. I soggetti, seduti in semicerchio, dovevano esprimere il loro giudizio a turno, a voce alta, nell’ordine in cui erano disposti.
Nel gruppo c’era un solo soggetto sperimentale, che occupava la penultima posizione; gli altri erano tutti complici del ricercatore, che avevano ricevuto precise istruzioni per dare, in modo calmo e sicuro, una risposta prestabilita: in sei prove “neutrali” dovevano rispondere correttamente; nelle restanti dodici prove critiche dovevano dare tutti, concordemente, la stessa risposta errata.
Asch inserì alcune prove neutrali per evitare che il soggetto si insospettisse o che attribuisse le risposte dei complici a problemi di vista.
Egli era interessato proprio al comportamento di questo individuo: come avrebbe reagito di fronte alla pressione del gruppo che, in modo compatto, contraddiceva palesemente l’evidenza suggerita dai suoi occhi? Si sarebbe contrapposto alla maggioranza oppure avrebbe smentito l’evidenza dei suoi stessi sensi?
Molti scelsero questa seconda strada.
- Rago, Marina (Autore)
Sulla base di interviste condotte al termine delle prove, Asch stabilì che il sottomettersi alla pressione del gruppo era il risultato di differenti condizioni psicologiche: alcuni soggetti accondiscendenti avevano scarsa fiducia nei loro giudizi e credevano che il parere espresso dagli altri partecipanti fosse più attendibile.
Altri individui non dubitavano veramente di ciò che avevano visto, ma preferivano conformarsi alla maggioranza per non esporsi pubblicamente come devianti: questi soggetti si preoccupavano che gli altri si formassero una buona impressione di loro e avevano paura di sentirsi socialmente esclusi.
#2. L’esperimento della bambola Bobo (Albert Bandura)
Questo esperimento del 1961 condotto da Albert Bandura intendeva spiegare come si sviluppa un comportamento aggressivo, che cosa spinge le persone a compiere atti aggressivi e cosa determina se continueranno a comportarsi in modo aggressivo o meno.
Dimostrando che un bambino imitava il comportamento di un modello adulto, l’esperimento indicò quanto fossero potenti gli esempi di aggressività forniti dall’ambiente sociale.
Per l’esperimento furono reclutati da una scuola materna locale, 36 bambini e 36 bambine, tutti di età compresa tra i tre e i sei anni.
I bambini sono stati divisi in tre gruppi di 24, ciascuno composto da 12 maschi e 12 femmine.
Il primo gruppo era il gruppo di controllo (che non vedeva alcun modello adulto di ruolo); il secondo gruppo era esposto al modellamento di un comportamento aggressivo adulto verso una bambola Bobo gonfiabile; il terzo gruppo è stato esposto ad un modello adulto passivo.
Tutti i bambini sono stati sottoposti individualmente all’esperimento per garantire che non fossero influenzati dai loro coetanei.
Negli esperimenti sul secondo gruppo, ogni bambino osservava un adulto che compiva atti fisicamente e verbalmente aggressivi nei confronti della bambola.
L’adulto ha colpito la bambola Bobo con un mazzuolo, l’ha lanciata in aria, l’ha presa a calci, la sbatteva a terra e la malmenava.
Quando poi il bambino veniva lasciato solo in una stanza con dei giocattoli, compresa la bambola Bobo, imitava buona parte degli atti aggressivi compiuti dai modelli adulti, creando anche nuovi atti di violenza contro la bambola.
I bambini di questo gruppo erano anche generalmente meno inibiti di quelli degli altri gruppi, mostrando una maggiore attrazione per le pistole giocattolo, anche se queste non erano state oggetto di modellamento.
Al contrario, i bambini del gruppo di controllo o quelli esposti a un modello adulto passivo, raramente mostravano aggressività fisica o verbale.
Sebbene Bandura abbia considerato la possibilità che l’osservazione di atti aggressivi non faceva altro che indebolire le inibizioni dei bambini a comportarsi in modo violento, il fatto che spesso imitavano l’esatto comportamento che avevano appena osservato faceva pensare che fosse in atto un apprendimento per osservazione.
#3. Una classe divisa (Jane Elliott )
Il famoso esperimento di Jane Elliott è stato ispirato dall’assassinio di Martin Luther King.
Jane Elliott, insegnante e attivista anti-razzista ha sviluppato un esercizio per aiutare i suoi studenti a comprendere gli effetti del razzismo e del pregiudizio. Nel 1968, all’indomani dell’uccisione di Martin Luther King, l’insegnante di terza elementare per due giorni divise la sua classe in due gruppi separati: studenti con gli occhi azzurri e studenti con gli occhi scuri.
Il primo giorno ha etichettato il gruppo dagli occhi azzurri come il “gruppo di livello superiore” lasciando i bambini dagli occhi castani a rappresentare il “gruppo di minoranza”. Agli studenti con gli occhi azzurri concesse una serie di privilegi e li riempì di complimenti. Ai secondi, invece, riservò punizioni e discriminazioni.
L’insegnante ha scoraggiato l’interazione tra i due gruppi e ha individuato singoli studenti per sottolineare le caratteristiche negative dei bambini nel gruppo di minoranza.
Il gruppo di studenti dagli occhi azzurri si è comportato meglio a livello accademico e ha persino iniziato a maltrattare i loro compagni di classe con gli occhi marroni. Il gruppo dagli occhi castani ha sperimentato una minore autostima e peggiori risultati accademici.
Il giorno dopo l’insegnante invertì i ruoli, così ai ragazzi con gli occhi scuri furono concessi privilegi e a quelli con gli occhi azzurri, diventati gruppo di minoranza, le punizioni.
Sempre il gruppo privilegiato dimostrò di seguire con maggiore entusiasmo le lezioni in classe, le loro risposte alle domande erano più rapide e precise e i risultati sempre migliori nei test; coloro che, invece, venivano discriminati si sentivano più abbattuti e ciò causava risposte esitanti e voti pessimi.
- King, Martin Luther (Autore)
Ciò che questo esercizio ha dimostrato è che il comportamento dei bambini è cambiato quasi istantaneamente. Da allora questo esercizio è stato ripetuto molte volte con risultati simili.
#4. Esperimento dell’incidente automobilistico (Elizabeth Loftus, John Palmer)
Nel 1974 fu condotto da Elizabeth F. Loftus e John Palmer un esperimento in cui a una serie di persone furono mostrate immagini di due auto protagoniste di un incidente automobilistico. Loftus e Palmer hanno dimostrato quanto possano essere ingannevoli i ricordi.
Il Car Crash Experiment fu progettato per valutare se le domande formulate in un determinato modo potessero influenzare il richiamo del ricordo di un partecipante distorcendo i ricordi di un evento specifico.
I partecipanti hanno guardato le diapositive di un incidente d’auto e successivamente è stato chiesto loro di descrivere cosa era successo come se fossero stati testimoni oculari della scena.
I partecipanti furono suddivisi in due gruppi e ogni gruppo è stato interrogato usando una formulazione diversa, ad esempio “quanto è veloce la guida dell’auto al momento dell’impatto?” Rispetto a “quanto era veloce l’auto quando si è schiantata contro l’altra macchina?”
A ogni persona fu chiesto a che velocità viaggiassero le auto al momento dell’impatto. A seconda del verbo usato nella domanda (colpito, urtato, fracassato, schiantato, distrutto, etc.) le persone aumentavano o diminuivano la stima della velocità percepita.
Gli sperimentatori hanno scoperto che l’utilizzo di verbi diversi influenza il ricordo dell’incidente dei partecipanti, dimostrando che la memoria può essere facilmente distorta. La testimonianza degli osservatori veniva chiaramente distorta dal modo in cui le domande erano poste.
Questo esperimento suggerisce che la memoria può essere facilmente manipolata dalla “tecnica di interrogatorio”, nel senso che le informazioni raccolte dopo l’evento possono fondersi con la memoria originale causando un richiamo errato o creando una nuova “memoria costruttiva”.
Su Elizabeth Loftus puoi leggere: Il panico satanico e i presunti abusi sessuali spiegati con la sindrome dei falsi ricordi
#5. Esperimento della Dissonanza cognitiva (Leon Festinger, James Carlsmith)
Il modello della dissonanza cognitiva è stato sviluppato nel 1957 dallo psicologo Leon Festinger. Egli aveva notato che le persone provano disagio e ansia quando le loro azioni o comportamenti non sono coerenti con le loro convinzioni e i loro atteggiamenti di base.
Festinger osservò che le persone cercano di continuo di mettere ordine nel proprio mondo e che una parte essenziale di quell’ordine è la coerenza. Allo scopo si sviluppano routine e abitudini come consumare i pasti a orari fissi o avere un posto preferito sull’autobus o al pub che frequenti di solito.
Quando queste routine sono sconvolte ci sentiamo a disagio. Lo stesso vale per gli schemi di pensiero abituali o le convinzioni. Se un’opinione radicata si scontra con una prova contraria, crea scomoda incoerenza interiore.
Festinger la chiamava dissonanza cognitiva e ragionava che l’unico modo per superare il disagio fosse quello di rendere in qualche modo coerenti la convinzione e la prova.
Nell’esperimento condotto da Festinger con James Carlsmith viene chiesto a un gruppo di studenti, esaminati singolarmente, di partecipare per un’ora ad un esperimento basato su prove molto noiose.
Prima di far uscire dalla stanza ogni singolo studente, lo sperimentatore afferma che molte altre persone hanno trovato il compito piuttosto interessante. E questo manda in confusione lo studente, perché in realtà il compito non era affatto interessante.
Poco dopo viene chiesto ad ogni soggetto di convincere il partecipante successivo che l’esperimento è stato bello e divertente. Per tale dichiarazione: ad alcuni studenti viene data una ricompensa di 1 dollaro, mentre ad altri di 20 dollari.
Intervistati alla fine della prova, gli studenti che avevano ricevuto 20 dollari affermano che il compito è stato molto noioso, ma che valeva comunque la pena mentire per una paga di 20 dollari.
Gli studenti che avevano ricevuto solo 1 dollaro, affermano invece che il compito è stato abbastanza bello e divertente, ciò per riequilibrare la dissonanza cognitiva che deriva dal fatto di mentire, dicendo che il compito è bello quando non lo è, per una paga insignificante: solo 1 dollaro.
- Festinger, Leon (Autore)
Le situazioni in cui le persone cercano di riequilibrare la dissonanza cognitiva attraverso la razionalizzazione sono tantissime. Essere consapevoli di dove può portarci la dissonanza cognitiva, ci aiuta a evitare alcune conseguenze potenzialmente dannose.
LEGGI ANCHE: La dissonanza cognitiva spiega perché la persone non cambiano opinioni malgrado prove e argomentazioni
#6. La camera di osservazione di Fantz (Robert L. Fantz)
Lo studio condotto da Robert L. Fantz è tra i più semplici, ma tra i più importanti nel campo della psicologia dello sviluppo. Egli si è servito di una camera di osservazione che permetteva a un bambino sdraiato, di osservare oggetti che erano posti sopra di lui.
Lo sperimentatore attraverso un foro o una telecamera, poteva constatare quali oggetti venivano osservati dal bambino. La tecnica consisteva nel presentare due diversi oggetti (una palla blu e una rossa) uno posto a sinistra e uno a destra.
La stessa situazione veniva presentata più volte agli stessi bambini. Inoltre lo stesso oggetto era per metà posto a destra e per metà a sinistra, per annullare eventuali preferenze per la parte destra o la sinistra e valutare l’effettiva preferenza. In media i due oggetti veniva osservati per metà tempo ciascuno. Quindi non vi era una preferenza per uno dei due oggetti.
Poteva accadere che uno dei due fosse preferito. Da ciò si può dedurre che se il neonato guarda più a lungo uno dei due oggetti, allora è in grado di riconoscere che i due oggetti non sono uguali. Ciò significa che li discrimina, li differenzia, ne percepisce una qualche diversità. Variando gli oggetti stimolo, è stato possibile giungere a conclusioni più precise.
Il neonato è in grado di discriminare la luminosità, il movimento, e i colori. Inoltre secondo gli studi di Fantz, i neonati di fronte a due stimoli di diversa complessità, preferiscono quelli più complessi. (es: disco a cerchi concentrici o disco colorato).
I neonati preferiscono guardare il volto umano e distinguono un volto da un altro volto con i vari elementi disposti in maniera asimmetrica.
#7. Effetto Hawthorne (Henry A. Landsberger)
L’effetto Hawthorne
è un termine che si riferisce alla tendenza di alcune persone a lavorare di più quando partecipano a un esperimento. Il termine è spesso usato per suggerire che gli individui possono cambiare il loro comportamento a causa dell’attenzione che stanno ricevendo dai ricercatori.
L’effetto è stato descritto per la prima volta negli anni ’50 dal ricercatore Henry A. Landsberger durante la sua analisi degli esperimenti condotti negli anni ’20 e ’30. Il fenomeno prende il nome dal luogo in cui si sono svolti gli esperimenti, la compagnia elettrica Hawthorne Works di Western Electric, appena fuori Hawthorne, nell’Illinois.
La società elettrica aveva commissionato la ricerca per determinare se esistesse una relazione tra produttività e ambienti di lavoro. Lo scopo originale degli studi Hawthorne era di esaminare come diversi aspetti dell’ambiente di lavoro, come l’illuminazione, i tempi delle pause e la durata della giornata lavorativa, avessero avuto sulla produttività dei lavoratori.
Nel più famoso degli esperimenti, l’obiettivo dello studio era determinare se l’aumento o la riduzione della quantità di luce ricevuta dai lavoratori avrebbe avuto un effetto sul rendimento dei lavoratori durante i loro turni. La produttività dei dipendenti sembrava aumentare a causa dei cambiamenti, ma poi è diminuita al termine dell’esperimento.
#8. L’esperimento della prigione di Stanford (Philip Zimbardo)
Nell’agosto del 1971, il professore di psicologia Philip Zimbardo condusse un esperimento nel seminterrato della Jordan Hall della Stanford University per scoprire come si sarebbero comportati degli individui messi in una posizione di autorità con potere illimitato.
Con “L’esperimento della prigione di Stanford”, servendosi di 24 studenti universitari che interpretavano i ruoli di finti prigionieri e finte guardie, Zimbardo avrebbe indagato le dinamiche di potere e le relazioni in un contesto carcerario per capire se il potere rende le persone brutali e sadiche o se quelle qualità sono intrinseche nella natura umana.
Con il lancio di una moneta, Zimbardo e il suo gruppo di ricerca assegnò casualmente i ruoli di “prigionieri” e “guardie”, l’esperimento iniziò di domenica mattina, il 17 agosto 1971.
Quelli a cui era toccato il ruolo dei prigionieri furono arrestati e schedati in una vera stazione di polizia a Palo Alto, poi bendati furono trasferiti nel seminterrato del dipartimento di psicologia della Stanford University, trasformato in una finta prigione.
La prigione necessaria all’esecuzione dell’esperimento fu ricavata dal seminterrato del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford. Le celle furono realizzate sostituendo le normali porte dei laboratori con porte speciali fatte di sbarre d’acciaio.
Ogni cella era dotata di un citofono dentro il quale venne installato un microfono-spia per controllare i discorsi dei prigionieri. Telecamere collegate a videoregistratori che permettevano di controllare ogni attività vennero collocate in punti strategici della struttura. Nella prigione non c’erano finestre né orologi che aiutassero a rendersi conto del trascorrere del tempo.
Per rendere l’esperienza il più reale possibile dal punto di vista psicologico, dopo aver rilasciato le impronte digitali i prigionieri furono spogliati, perquisiti e privati degli effetti personali, irrorati con uno spray disinfestante e costretti a indossare un ampio camice riportante un numero di identificazione, dei sandali di gomma e un copricapo ricavato da una calza di nylon.
Per accresce il senso di disumanizzazione, erano chiamati soltanto con il numero loro assegnato e ognuno indossava una cavigliera di metallo a cui era fissata una catena, per ricordare la mancanza di libertà.
Le guardie indossavano vere uniformi della guardia carceraria con occhiali da sole per impedire il contatto visivo con i prigionieri, tenendo bene in vista chiavi, fischietti, manette e manganelli. Erano in servizio 24 ore al giorno.
Sebbene la violenza fisica non fosse permessa, le guardie potevano, molestare i prigionieri, trattenere il cibo o togliere privilegi a loro discrezione.
Con stupore dei ricercatori, l’ambiente divenne ben presto minaccioso per i partecipanti. Molte guardie mostrarono una marcata tendenza ad assumere atteggiamenti crudeli verso i prigionieri, e questi ultimi a rimanere passivi.
I ricercatori dovettero ricordare più volte ai carcerieri di astenersi da azioni violente, che aumentavano nelle ore notturne, quando le guardie erano convinte di non essere osservate.
Mentre le guardie aumentavano la loro aggressività, i prigionieri diventavano sempre più stressati. Dopo circa 36 ore di prigionia e maltrattamenti da parte delle guardie, uno studente, il detenuto n. 8612, fu rilasciato perché manifestava disturbi depressivi gravi, pensiero disorganizzato, pianto irrefrenabile e attacchi d’ira.
Già il secondo giorno cinque soggetti vennero rispediti a casa perché accusavano sintomi di depressione, turbe emotive e persino eruzioni cutanee di natura psicosomatica. Quando i detenuti vennero visitati da un autentico sacerdote, alcuni gli chiesero di metterli in contatto con un avvocato.
L’esperimento di 2 settimane durò solo 6 giorni. Il sesto giorno dell’esperimento, Christina Maslach, una dottoranda, fu chiamata per intervistare i detenuti. Rimase inorridita da ciò che vide e chiese a Zimbardo di porre fine all’esperimento.
Zimbardo, rendendosi conto che la dottoranda aveva ragione, decise di terminare lo studio. In seguito ha dichiarato che anch’egli, una volta entrato nella parte, ragionava come il direttore della prigione e non più come lo psicologo della ricerca.
L’esperimento ha dimostrato che è possibile indurre delle brave persone a comportarsi in modo malvagio immergendole in “situazioni totali” con un’ideologia che apparentemente le legittima con regole e ruoli approvati.
LEGGI ANCHE: L’ESPERIMENTO DELLA PRIGIONE DI STANFORD DI PHILIP ZIMBARDO POTREBBE ESSERE LO STUDIO PIÙ SCONVOLGENTE MAI CONDOTTO
#9. L’esperimento sull’obbedienza all’autorità (Stanley Milgram)
Stanley Milgram
nel 1961 voleva capire fino a che punto le persone si sarebbero spinte nell’ infliggere punizioni dolorose ad un innocente. Il soggetto dell’esperimento impersonava la parte dell’istruttore che era disposto ad infliggere il massimo dolore anche quando l’allievo, impersonato da un collaboratore, gridava dal dolore.
Tutti e 40 i soggetti continuavano l’esperimento anche quando l’urlo dell’allievo era straziante. Solo alcuni, dopo la scarica di 300 volt, smettevano quando udivano che chi gridava, non avrebbe più risposto al test di memoria.
Milgram prima di iniziare fece una previsione sull’andamento dell’esperimento dando una probabilità del 1%-2% di soggetti che sarebbero arrivati fino a 450 volt, invece quasi la totalità dei soggetti ci arrivarono.
Un esperimento successivo ha dimostrato che il sesso era irrilevante nel mantenere la condotta sadica, così come non era possibile che i soggetti non si rendessero conto del reale pericolo fisico della vittima, anche quando questa lamentava problemi cardiaci.
Dopo che anche la possibilità che fosse stato reclutato involontariamente un gruppo di sadici venne considerata come infondata, Milgram diede una spiegazione al fenomeno indicandolo come il naturale senso di deferenza verso l’autorità che è radicato in noi.
L’incapacità del soggetto a contrastare l’ordine del “capo” che lo incita nel fare il suo dovere. I soggetti si rendevano conto che stavano nuocendo alla vittima, pregavano il ricercatore di lasciarli smettere ma dando quest’ultimo il suo rifiuto, continuavano protestando, tremando, sudando arrivando alcuni a crisi di riso nervoso.
Per fornire ulteriori prove, Milgram scambiò le parti del ricercatore (che ordinava di infliggere la punizione) e della vittima (cioè il soggetto che fungeva da istruttore). Ora era il ricercatore a chiedere di interrompere la prova per pietà verso l’allievo, mentre quest’ultimo insisteva coraggiosamente per andare avanti.
Il 100% dei soggetti (nella parte del ricercatore che impartiva l’ordine) si rifiutò di somministrare anche una sola scarica se a chiederlo era solo il compagno.
Stesso risultato se il ricercatore (che prima impartiva l’ordine) ora fungeva da allievo legato alla sedia, mentre l’altro soggetto (collaboratore che fingeva il dolore) faceva la parte del ricercatore impartendo l’ordine. Nessuno azionava la leva.
L’attenzione agli ordini dell’autorità e il fatto che non si trattava di soggetti sadici è dimostrata da un esperimento in cui due ricercatori davano ordini contraddittori; uno di continuare nelle scariche, l’altro di interrompere. Il soggetto non sapendo quale ordine eseguire, chiese di decidersi su un unico ordine e poi, venendo meno alla possibilità di obbedire alla autorità, seguì il suo istinto interrompendo l’esperimento.
Questo risultato fa emergere l’estrema disponibilità di persone adulte a seguire fino in fondo l’ordine di un’autorità. Che applicato a un’altra forma di autorità, il governo, fa temere conseguenze poco rassicuranti.
Lo studio di Milgram era nato per indagare sul motivo che spingeva tanti soldati nazisti a compiere tali atrocità sotto il comando dei loro superiori, ma presto si accorse che non era necessario spingersi fino agli ambienti germanici per trovare una tale riprova.
LEGGI ANCHE: IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ. MILGRAM, CIALDINI E IL CAMERIERE VINCENT
Conformarsi agli ordini dell’autorità ha sempre portato a vantaggi perché queste custodiscono un sapere superiore al nostro (vedi i nostri genitori) e questo e tanto logico per noi che spesso facciamo determinate cose anche quando è assurdo. Il vantaggio e che una volta riconosciuta l’autorità, eseguiamo un’azione senza preoccuparci di pensarci sopra credendo che sia la più adeguata alla situazione.
#10. L’effetto Spettatore. Il caso Kitty Genovese
Il caso di omicidio di Kitty Genovese non può essere inteso come un vero e proprio esperimento psicologico, tuttavia questa circostanza ha fornito preziosi contributi per lo sviluppo di una teoria psicosociale.
Secondo un articolo del New York Times, quasi quaranta testimoni hanno assistito alla tragica circostanza in cui Kitty Genovese è stata brutalmente assassinata nel Queens, in New York, nel 1964, ma nessun testimone è intervenuto o ha chiamato la polizia per chiedere aiuto.
Il fenomeno psicologico noto come “effetto spettatore” fu reso popolare dagli psicologi sociali Bibb Latané e John Darley in seguito all’omicidio di Kitty Genovese.
Latané e Darley attribuiscono “l’effetto spettatore” alla percezione della diffusione della responsabilità (gli osservatori hanno più probabilità di intervenire se ci sono pochi o nessun altro testimone) e l’influenza sociale (gli individui imitano il comportamento degli altri).
Nel caso di Genovese, ogni osservatore vedendo che nessuno interveniva, concludeva che il proprio personale aiuto non era necessario.
LEGGI: Apatia e indifferenza alle richieste di aiuto. Il caso Kitty Genovese
#11. Esperimento di impotenza appresa (Martin Seligman)
La learned helplessnes (impotenza appresa) definisce quel particolare atteggiamento rinunciatario, di un soggetto, poco propenso a cercare di modificare il corso degli eventi, in seguito alla ripetuta esposizione a situazioni incontrollabili.
L’esperimento ideato da Martin Seligman prevedeva una gabbia divisa in due zone: A e B. All’interno della gabbia era stato introdotto un cane che aveva la possibilità di muoversi tra le due zone.
La zona A era dotata di una pedana elettrificata attraverso la quale era possibile infliggere una scossa elettrica che si interrompeva nel momento nel quale il cane passava alla zona B.
Quando però venivano elettrificate entrambe le zone della gabbia (sia A sia B), i cani, dopo aver provato a fuggire la scossa, si accasciavano per terra con la sensazione di impotenza.
Se questa condizione era prolungata nel tempo, i cani apprendevano a rinunciare a qualsiasi azione nel momento in cui ricevevano la scossa, anche quando tornavano nella situazione iniziale in cui potevano interrompere la scossa elettrica.
Secondo Seligman, la stessa cosa avviene negli esseri umani quando sono convinti di essere impotenti davanti agli eventi della vita e questo è alla base di comportamenti depressivi.
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#12. L’esperimento del Piccolo Albert (John B. Watson e Rosalie Rayner)
L’esperimento del Piccolo Albert è considerato tra gli esperimenti psicologici più perversi di tutti i tempi. L’esperimento fu condotto nel 1920 da John Watson e Rosalie Rayner alla Johns Hopkins University.
I test erano congegnati per capire se fosse possibile insegnare a un bambino piccolo ad aver paura di un animale presentandoglielo più volte insieme a un rumore forte e terrificante. Watson voleva anche verificare se quella paura si sarebbe trasferita ad altri animali od oggetti e per quanto tempo sarebbe durata.
L’esperimento iniziò mettendo un ratto bianco di fronte al bambino, che inizialmente non aveva paura dell’animale. Watson emise quindi un suono forte colpendo una barra d’acciaio con un martello ogni volta che al piccolo Albert veniva presentato il ratto.
Dopo diversi accoppiamenti (il rumore e la presentazione del ratto bianco), il bambino ha iniziato a piangere e mostrare segni di paura ogni volta che il ratto appariva nella stanza. Watson creò anche riflessi condizionati simili con altri animali e oggetti comuni (conigli, barba di Babbo Natale, ecc.) finché Albert mostrò segni di paura per tutti gli oggetti.
Questo esperimento ha aperto la strada alla teoria secondo la quale le nevrosi possono essere frutto di un condizionamento appreso, per cui un soggetto non ricorda di aver collegato fra loro stimoli che di fatto non sono legati da alcuna connessione causale, e pertanto continua ad attribuire un significato negativo a questi stimoli, e a vivere una sensazione spiacevole quando essi si ripresentano, proprio sulla base di una serie di associazioni causali che lui stesso ha stabilito in tempi passati.
#13. Esperimento “Il cane di Pavlov” (Ivan Pavlov)
Ivan Pavlov
, psicologo russo precursore del comportamentismo, si dedica allo studio dei processi digestivi degli animali. Avendo osservato che alcuni cani iniziavano a secernere saliva prima di ricevere il cibo, Pavlov esclude che la salivazione prodotta prima dell’ingestione dipenda da uno stato soggettivo dell’animale e scopre che il cane può imparare ad associare al cibo uno stimolo esterno, in precedenza neutro.
Il cane, che prima salivava esclusivamente alla vista del cibo e quando lo consumava (risposta innata) impara a salivare in presenza dello stimolo artificiale (suono di un campanello), anche in assenza di cibo (risposta condizionata).
Pavlov definisce questo fenomeno “riflesso condizionato” e ipotizza che anche il comportamento umano si basi su una serie complessa di risposte condizionate: Il riflesso condizionato è un fenomeno comune e assai diffuso.
Si tratta, chiaramente, di ciò che noi riconosciamo in noi stessi e negli animali dandogli altri nomi come addestramento, disciplina, educazione, abitudini; tutte queste cose non sono altro che associazioni fatte nel corso dell’esistenza individuale, associazioni fra stimoli esterni definiti e le reazioni relative.
Questa teoria è diventata nota come condizionamento classico (ulteriormente sviluppato dallo sperimentatore e psicologo John Watson) e prevede di imparare ad associare uno stimolo incondizionato che provoca già una risposta particolare (cioè un riflesso) con un nuovo stimolo (condizionato), in modo che il nuovo stimolo produce la stessa risposta.
Ho parlato di Pavlov nel post: 7 Tecniche di manipolazione da conoscere assolutamente
#14. Esperimento Effetto Alone (Richard E. Nisbett e Timothy DeCamp Wilson)
Questo esperimento riguarda l’effetto alone, un processo cognitivo in base al quale, a partire da un’impressione generale, tendiamo ad estrapolare specifici attributi di un individuo. Così, ad esempio, se al primo incontro ci piace una persona, adottiamo il presupposto che anche altri suoi attributi (di cui sappiamo poco o nulla), siano positivi.
Stando alla teoria, l’effetto alone può indurci ad alterare la valutazione dei singoli attributi di una persona fino a distorcere le informazioni sulla realtà anche quando disponiamo di indizi sufficienti ad esprimere un giudizio critico.
Gli autori dichiarano di voler controllare con un esperimento l’esistenza dell’effetto alone e la mancanza di consapevolezza circa il dispiegarsi di questo processo nei soggetti che lo subiscono, nonché la direzione dell’influenza di tale processo.
Nell’esperimento vennero coinvolti 118 studenti (maschi e femmine) maschi dell’Università del Michigan, raggruppati in gruppi da 6-7 persone, separati in sessioni condotte simultaneamente onde evitare una fuga di notizie sulla ricerca.
I soggetti che si presentavano al laboratorio venivano accompagnati in una sala, dove assistevano alla proiezione di una video-intervista sui metodi didattici, rilasciata da un insegnante di psicologia (un complice dei ricercatori).
Nella video-intervista l’insegnante si presentava come vallone, cioè belga di madrelingua francese, e parlava inglese con uno spiccato accento.
Rispondeva a domande riguardanti la sua formazione e il suo metodo didattico. In metà delle sessioni, l’insegnante si mostrava antipatico, rigido e severo ed esibiva uno stile freddo e distaccato; nell’altra metà, appariva caldo e amichevole, incline al dialogo con gli allievi, rispettoso della loro intelligenza e delle loro motivazioni, flessibile nell’approccio alla didattica.
Terminata la proiezione, ai soggetti veniva somministrato un questionario volto a valutare la loro percezione della simpatia, dell’attrazione fisica, delle maniere e dell’accento dell’insegnante. Ai soggetti veniva anche chiesto se credevano che la simpatia/antipatia suscitata dall’insegnante avesse condizionato il loro giudizio sugli altri suoi attributi.
I soggetti esposti alla video-intervista dell’insegnante simpatico valutarono positivamente anche gli altri suoi attributi; all’opposto, coloro che avevano visto l’insegnante antipatico, li valutarono negativamente.
Gli autori concludono di aver controllato che l’impressione globale ricevuta su una persona può indurre ad alterare la valutazione dei suoi singoli attributi, anche quando ci sono informazioni sufficienti a consentire valutazioni indipendenti fra loro.
Hanno tentato poi di corroborare questi risultati sperimentali attraverso un esperimento complementare: fecero vedere ad altri soggetti, suddivisi in due gruppi, la stessa video-intervista priva di audio. In questo caso, non rilevarono fra i due gruppi alcuna differenza sul modo di valutare gli attributi specifici dell’insegnante; da ciò dedussero che era stata proprio l’impressione globale (generata negli spettatori dalle risposte date dall’insegnante) ad innescare l’effetto alone.
#15. Esperimento della madre surrogata
Harry Harlow
, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, voleva studiare l’importanza dell’amore materno per uno sviluppo sano. Per fare ciò, ha condotto una serie di esperimenti sulle scimmie rhesus, osservando come l’isolamento e la separazione possano influenzare i soggetti negli ultimi anni della loro vita.
Harlow separò i cuccioli di scimmia dalle loro madri biologiche entro 6-12 ore dalla nascita. Quindi mise questi cuccioli in un “asilo con madri surrogate” inanimate. Una era fatta di una pesante rete metallica e l’altra di un telaio in legno coperto da un panno morbido. Entrambi i surrogati avevano le stesse dimensioni; tuttavia la madre di rete metallica non aveva alcuna superficie morbida, mentre la madre di panno era morbida al tatto e sembrava essere “coccolosa”.
Nel primo esperimento i cuccioli potevano scegliere la madre surrogata. Nel secondo esperimento, i cuccioli scimmia erano divisi in due gruppi (rete metallica o panno) e non potevano scegliere la madre surrogata.
Dopo aver osservato i cuccioli di scimmia, è stato scoperto che, sebbene i cuccioli ricevessero nutrimento dalla madre di rete metallica, trascorrevano più tempo con la madre di spugna. Ciò dimostra che il legame tra madre e cucciolo non si basava esclusivamente sul fatto che il primo fosse in grado di soddisfare i bisogni fisiologici del secondo.
Inoltre, i risultati del secondo esperimento hanno mostrato che mentre i cuccioli di scimmia di entrambi i gruppi consumavano la stessa quantità di latte dalla madre, i cuccioli che erano cresciuti con la madre in pano esibivano attaccamento emotivo. Ogni volta che si sentivano minacciati, si avvicinavano alla madre di spugna fino a che non si fossero calmati.
I risultati per la madre in rete metallica erano l’opposto. Hanno reagito in modo piuttosto diverso con lo stesso stimolo, gettandosi sul pavimento, dondolandosi, e non sono andati dalla madre in rete metallica per ricevere conforto.
#16. Impossibilità di distinguere i sani dai folli, negli ospedali psichiatrici (David Rosenhan)
Nel 1973 lo psicologo David Rosenhan portò avanti negli Stati Uniti uno studio sul campo che esplorava la validità delle diagnosi psichiatriche, ed ebbe come risultato che negli ospedali psichiatrici non è possibile distinguere una persona sana da un folle.
Lo studio di David Rosenhan “On Being Sane in Insane Places” (in italiano: “Sull’esser sani in luoghi folli”) fu pubblicato dalla prestigiosa rivista Science, e ancora oggi è considerato una critica importante e influente delle diagnosi psichiatriche.
Il disegno sperimentale venne ideato per controllare se in un ospedale psichiatrico i medici fossero in grado di distinguere una persona sana da un individuo con disturbi psichici.
L’idea di base era far sì che alcune persone immuni da disturbi mentali riuscissero a farsi ricoverare in un ospedale psichiatrico fingendosi malati: se gli psichiatri fossero stati affidabili e le loro diagnosi scientificamente fondate, avrebbero smascherato queste persone, dichiarandole sane di mente.
Rosenhan stesso prese parte all’esperimento insieme ad altre sette persone. Vennero scelti dodici dei migliori ospedali degli Stati Uniti. Ogni finto paziente si presentò al servizio di accettazione del rispettivo ospedale, denunciando di “sentire delle voci” (un sintomo comunemente associato alla schizofrenia).
Vennero tutti ricoverati con una diagnosi di schizofrenia, eccetto uno, ricoverato come maniaco-depressivo. Per un breve periodo alcuni pazienti manifestarono un po’ di nervosismo, in quanto avevano timore di essere smascherati ed accusati di essere degli impostori.
Rosenhan aveva detto loro che l’unico modo per essere dimessi consisteva nel convincere i medici di essere sani di mente). Tutti si attennero alle istruzioni impartite dai medici, accettando la somministrazione di farmaci (che però non ingerirono) e mostrandosi cortesi e collaborativi con gli infermieri.
Durante i primi giorni del ricovero gli pazienti annotarono le loro osservazioni sul reparto, sui pazienti e lo staff. Rimasero ricoverati per una media di 19 giorni. La loro sanità mentale non venne mai rilevata dagli psichiatri; furono tutti dimessi con una diagnosi di schizofrenia “in via di remissione”.
Nelle cartelle cliniche non venne trovata alcuna traccia del fatto che i medici sospettassero un inganno. Una volta etichettato come “schizofrenico” ogni paziente rimase intrappolato in questa etichetta. Comportamenti normali venivano o completamente trascurati oppure fraintesi. Minimi dissensi erano interpretati come indicatori di gravi instabilità emotive.
Per Approfondimenti LEGGI: David Rosenhan. L’impossibilità di distinguere i sani dai folli, negli ospedali psichiatrici
#17. Effetto Pigmalione (Robert Rosenthal)
L’effetto Pigmalione, noto anche come effetto Rosenthal, deriva dagli studi classici sulla “profezia che si autorealizza”.
L’idea centrale dell’esperimento è che l’aspettativa di una persona in merito al comportamento di un’altra possa tramutarsi in una profezia che si auto-adempie.
Robert Rosenthal, professore ad Harvard, e Lenore Jacobson, direttrice di una scuola elementare ipotizzarono che l’aspettativa di un insegnante sullo sviluppo intellettuale di alcuni alunni potesse determinarne il rendimento, ovvero funzionare come una predizione in grado di auto-adempiersi: per il solo fatto di essere creduti migliori dagli insegnanti, quei bambini avrebbero fatto registrare un profitto più alto.
L’esperimento volto a controllare questa ipotesi fu condotto nella scuola elementare di una cittadina statunitense. Nella scuola c’erano tre sezioni: rapide, medie e lente; il raggruppamento in sezioni si basava sulla teoria che un minor divario di capacità all’interno di una classe provocava meno frustrazioni e un miglior profitto da parte degli alunni.
Questi venivano assegnati alle sezioni in base ai quozienti di intelligenza e all’abilità nella lettura. Le raccomandazioni per l’assegnazione alle sezioni venivano fatte alla fine di ogni anno scolastico per il ciclo successivo.
I messicani erano sovra-rappresentati nella sezione lenta e scarseggiavano nelle sezioni rapide, al pari dei figli di famiglie a basso reddito; si aveva inoltre una prevalenza di maschi nella sezione lenta e di femmine nella sezione rapida.
Nella primavera del 1964 a tutti i bambini della scuola che sarebbero tornati l’anno successivo venne somministrato un test che gli insegnanti credevano utile a determinare il q.i. di ogni alunno (necessario alla distribuzione dei bambini nelle sezioni) ed a individuare quel 20% degli studenti che nell’anno scolastico avrebbero compiuto un progresso intellettuale più rilevante.
Prima della somministrazione del test ogni insegnante aveva ricevuto un documento che illustrava lo scopo della ricerca e precisava che il progresso scolastico di ogni bambino non è lineare: anche alunni che in passato non avevano reso molto negli studi avrebbero potuto manifestare una “fioritura tarda”.
Il test scelto per realizzare l’esperimento era il TOGA un comune test semi-standardizzato d’intelligenza composto da due prove: una rilevava la capacità verbale dell’alunno, l’altra quella di ragionamento. La somma dei punteggi ottenuti nelle due prove costituiva il q.i. globale.
Prima dell’inizio dell’anno scolastico agli insegnanti venne fornito l’elenco degli alunni della loro classe che, nel corso dell’anno, stante i risultati del test somministrato nella scuola, avrebbero dato prova di un marcato progresso intellettuale. Li si avvertì di non informare di questi risultati gli alunni né i loro genitori.
I bambini segnalati come soggetti dai quali c’era da aspettarsi il massimo profitto in quell’anno erano il 20% dei frequentanti la scuola. In realtà, all’insaputa degli insegnanti, i loro nomi erano stati estratti a sorte; pertanto la supposta differenza nel potenziale sviluppo intellettuale fra gli alunni non aveva alcun fondamento.
Scopo dell’esperimento era appunto controllare se i bambini che gli insegnanti credevano più dotati avrebbero mostrato un progresso intellettuale maggiore degli altri. Il vantaggio da aspettativa venne definito come la differenza, calcolata alla fine dell’anno scolastico, nel punteggio medio ottenuto dai soggetti speciali e quello fatto registrare dal resto della scolaresca.
I ricercatori eseguirono diverse prove e con i risultati ottenuti, gli autori si sentirono autorizzati a “concludere che gli alunni dai quali gli insegnanti si aspettano un progresso intellettuale progrediscono in un anno effettivamente più di quelli dai quali non ci si aspetta alcun speciale miglioramento”.
#18. L’esperimento del fumo nella stanza (John Darley e Bibb Latané)
L’ esperimento fu condotto da John Darley e Bibb Latané nel 1968, coinvolse alcuni studenti della Columbia University, a cui fu chiesto di compilare dei questionari. Ad alcuni di loro fu chiesto di farlo mentre si trovavano in una stanza da soli, altri invece erano in compagnia di altre persone, complici dell’esperimento.
Quando soli nella stanza, il 75% delle persone ha segnalato il fumo quasi immediatamente. Il tempo medio di segnalazione è stato di 2 minuti dalla prima volta che hanno notato il fumo.
Quando erano presenti due attori, complici degli sperimentatori, istruiti a comportarsi come se non vi fosse nulla di sbagliato, solo il 10% dei soggetti ha lasciato la stanza o ha riferito del fumo. 9 soggetti su 10 hanno continuato a lavorare sul questionario, mentre si stropicciavano gli occhi e sventolavano il fumo dal viso.
L’esperimento è stato un ottimo esempio di persone che rispondono più lentamente (o per niente) a situazioni di emergenza in presenza di altre persone passive. Sembra che facciamo molto affidamento sulle risposte degli altri anche contro i nostri stessi istinti.
#19. Esperimento nella grotta dei ladri (Muzafer Sherif)
Questo classico studio del conflitto e della cooperazione tra gruppi ha dimostrato in che modo i gruppi favoriscono fortemente i propri membri e come i conflitti tra gruppi possono essere risolti dai gruppi che lavorano insieme su un compito comune che nessuno dei due gruppi può completare senza l’aiuto dell’altro gruppo.
Gli sperimentatori hanno portato due gruppi di ragazzi di 11 e 12 anni in quello che pensavano fosse un campo estivo. Per la prima settimana, i due gruppi di ragazzi furono separati e non si conoscevano. Durante questo periodo, i ragazzi si sono uniti agli altri ragazzi del loro gruppo.
Quindi, i due gruppi si sono presentati l’un l’altro e hanno subito iniziato a manifestare i segni del conflitto. Gli sperimentatori hanno creato competizione tra i gruppi e, come previsto, sono aumentati i livelli di ostilità e comportamenti aggressivi tra i gruppi.
Nella terza settimana, gli sperimentatori hanno creato condizioni che richiedevano a entrambi i gruppi di lavorare insieme per risolvere un problema comune. Un esempio è stato il problema dell’acqua potabile. I bambini avevano l’impressione che la loro acqua potabile fosse stata tagliata probabilmente a causa di atti vandalici. Entrambi i gruppi hanno lavorato insieme per risolvere il problema.
Alla fine dell’esperimento, dopo che i gruppi avevano lavorato insieme sui compiti, i rapporti di amicizia tra gruppi erano aumentati in modo significativo, dimostrando che la socializzazione tra gruppi di lavoro è uno dei modi più efficaci per ridurre il pregiudizio e la discriminazione.
#20. L’esperimento del test Marshmallow
L’esperimento di marshmallow di Stanford riguarda una serie di studi sulla gratificazione ritardata, condotti dalla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70 dallo psicologo Walter Mischel.
Bambini dai quattro ai sei anni furono condotti in una stanza dove un dolce (di solito un marshmallow, o un biscotto), veniva posto su un tavolo. I bambini potevano mangiare subito il dolce ma se avessero aspettato quindici minuti senza arrendersi alla tentazione, sarebbero stati ricompensati con un secondo dolce.
Mischel osservò che alcuni bambini avevano coperto gli occhi con le mani o si giravano in modo da non poter vedere il vassoio, altri scalciavano alla scrivania, alcuni accarezzavano il marshmallow come se fosse un piccolo animale di peluche, mentre altri mangiavano il marshmallow non appena i ricercatori uscivano dalla stanza.
In oltre 600 bambini che hanno preso parte all’esperimento, una minoranza ha mangiato immediatamente il marshmallow. Di coloro che hanno tentato di ritardare, un terzo ha posticipato la gratificazione abbastanza a lungo da ottenere il secondo marshmallow. L’età è stata una delle principali determinanti della gratificazione differita.
Negli studi di follow-up, i ricercatori hanno scoperto che i bambini che erano in grado di aspettare più a lungo per la più grande ricompensa di due marshmallow tendevano ad avere migliori risultati sulla vita, come misurato da punteggi SAT.
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Bibliografia:
- “Gli esperimenti nelle scienze sociali” di Marina Rago
- “Il libro della psicologia” Gribaudo
- The 25 Most Influential Psychological Experiments in History
- 28 Psychological Experiments That Revealed Incredible And Uncomfortable Truths About Ourselves
- Wikipedia
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