Il fenomeno psicologico noto come “effetto spettatore” fu reso popolare dagli psicologi sociali Bibb Latané e John Darley in seguito all’omicidio del 1964 a New York di Kitty Genovese
A differenza della noia, che ci tormenta con la voglia di avere qualcosa da fare, l’apatia è una forma di indifferenza verso il mondo circostante caratterizzata da una mancanza di volontà di azione.
Soltanto duemila anni fa i filosofi attribuivano alla apatia un ruolo nobile. Lo Stoicismo insegnava che la apatheia era essenziale a una società equa e armoniosa. La parola, derivante da a- (senza) e pathos (passione), aveva un significato piuttosto diverso dalla fiacca inerzia che molti di noi conoscono abbastanza bene.
Secondo gli stoici, perché le persone agissero in maniera giusta e razionale, andavano tenute sotto stretto controllo emozioni quali la rabbia e la gelosia. L’obiettivo della pratica stoica era imparare a bloccare i propri sentimenti al loro primo emergere involontario, decidendo in maniera consapevole di negar loro il permesso di sbocciare.
Gli stoici non credevano che tutte le emozioni fossero un male anche se alcune delle emozioni con il maggior potenziale distruttivo andavano contenute per il bene della collettività.
Oggi, a molti di noi, porsi l’obiettivo di mantenere la vita in uno stato di equilibrio benevolo potrebbe sembrare irragionevole e gran parte dei motivi per cui in tanti oggi guardiamo all’apatia con sospetto si può far risalire all’omicidio di una donna che si chiamava Catherine Kitty Genovese.
Il caso Catherine “Kitty” Genovese
Nel marzo del 1964 l’allora ventottenne Catherine Genovese fu uccisa a New York, all’esterno di un palazzo di appartamenti. L’omicidio, per quanto tragico, non rappresentava di per sé una novità assoluta.
Quello che sorprese furono le notizie riportate sui quotidiani del giorno dopo, secondo cui 38 inquilini del palazzo avevano sentito la donna urlare, erano andati alle loro finestre ed erano rimasti a guardare l’aggressione senza chiedere aiuto.
- Watt Smith, Tiffany(Autore)
Il 13 marzo del 1964 la ventottenne Catherine Genovese ritornava a casa a piedi dopo una giornata di lavoro quando fu pugnalata e assassinata da un aggressore sconosciuto dopo essere stata violentata.
Al crimine, che durò circa mezz’ora, assistettero, secondo la stampa, 38 persone e per tutto il tempo nessuno di loro chiamò la polizia. Il caso di “Kitty” Genovese (come fu chiamata dai mass-media) catalizzò le ricerche sullo studio del comportamento dei passanti e sulla loro inerzia nell’agire.
Tale fenomeno, noto come “Sindrome Genovese” toccò un aspetto fondamentale della condizione umana: “Se ci capitasse di aver bisogno di aiuto, chi ci sta vicino lascerà che ci facciano del male o ci presterà soccorso?”
Quando Catherine fini il suo lavoro, nei pressi del suo appartamento notò una figura che le veniva incontro con un coltello in mano. Catherine tentò di raggiungere la più vicina cabina di polizia ma l’aggressore la rincorse e le saltò addosso pugnalandola diverse volte alla schiena. Catherine urlò a squarciagola e chiedeva aiuto.
Molti vicini accesero le luci, alcuni sentirono le urla e furono in grado di vedere la lotta. Dal settimo piano, un signore aprì la sua finestra vide il combattimento e urlò: “Lascia andare la ragazza!” L’aggressore senti le sue grida e corse via.
Alcuni vicini riportarono di aver visto l’aggressore correre verso la sua macchina, ma notarono che dieci minuti dopo stava ancora vagando nei dintorni alla ricerca di una vittima.
Catherine, gravemente ferita, riuscì a raggiungere il proprio condominio e crollò nell’atrio. Vide il suo aggressore ritornare, e mentre veniva pugnalata i vicini udirono le grida. L’aggressore la stuprò e la lasciò morire. In tutto, la violenza durò ben 32 minuti e durante questo tempo, nessuno dei testimoni chiamò la polizia.
Una settimana dopo, Winston Moseley, un manovale ventinovenne, fu arrestato per l’omicidio. Moseley fu riconosciuto colpevole e condannato alla sedia elettrica ma per un errore giudiziario commesso la pena fu commutata in ergastolo.
La storia, riportata da tutti i giornali, non si soffermava tanto sui particolari dell’omicidio, quanto sul fatto che di 38 testimoni che avevano assistito nessuno aveva chiamato la polizia durante l’aggressione. L’unica persona che lo fece, la chiamò quando la donna era ormai morta e solo dopo aver chiamato un amico. I poliziotti arrivarono in due minuti dalla chiamata.
L’interrogativo ancora attuale è: Perché nessuno chiamò la polizia quando videro chiaramente che una donna innocente stava per essere uccisa?
La spiegazione: una combinazione di “ignoranza pluralistica” e “diffusione di responsabilità”
Subito dopo l’omicidio, due professori di psicologia di New York, Bibb Latané e John Darley, decisero di condurre delle ricerche sul comportamento dei testimoni, iniziarono a fare ricerca in quest’area in seguito all’omicidio di Catherine Genovese.
La prima spiegazione che avanzarono riguardava il fenomeno che definirono “ignoranza pluralistica”. Suggerirono che nelle situazioni ambigue, le persone osservano e riproducono il comportamento degli altri: se gli altri intervengono, intervengono anche loro, altrimenti non intervengono.
In una situazione di emergenza, se tutti i testimoni sono incerti e si guardano l’un l’altro in cerca di una guida, la loro osservazione può condurli in errore e far sì che il loro comportamento si riduca alla non azione.
Se i testimoni del caso Genovese guardando negli altri appartamenti non videro nessuno agire, probabilmente interpretarono la situazione come una non emergenza. Per ridimensionare ciò che si è visto vengono ipotizzate spiegazioni alternative, ad esempio si può pensare di star assistendo a solo “una lite tra innamorati” o a “solo una coppia che scherza”.
La seconda spiegazione che i due psicologi proposero è ancora una volta collegata al numero di testimoni presenti sulla scena del crimine. La presenza di altre persone può influenzare il processo di presa delle decisioni, determinando la cosiddetta “diffusione della responsabilità” per cui ogni persona si sente meno responsabile di dover affrontare l’emergenza, nella convinzione che qualcun altro può intervenire.
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Dato il gran numero di testimoni nel caso Genovese, questi avevano l’impressione che vi fossero molti altri a guardare lo svolgersi dell’atto criminoso, visto che c’erano molte luci accese e persone alle finestre, pensando erroneamente quindi che altre persone si sarebbero assunte la responsabilità.
In ogni caso se nessuno aveva prestato aiuto, la colpa non poteva essere completamente tua, visto che nessun altro era intervenuto.
Una combinazione di “diffusione della responsabilità” e di “ignoranza pluralistica” probabilmente spiega perché i testimoni presenti all’omicidio della Genovese si comportarono cosi.
Presumibilmente, ritenevano che, poiché nessun altro stava agendo come se ci fosse un’emergenza, era probabile che l’emergenza non ci fosse. Inoltre, anche se qualcuno sospettò che potesse esserci un’emergenza, l’effetto della diffusione della responsabilità li fece sentire meno in obbligo e più restii ad agire.
In una situazione di gruppo, è molto più facile per un individuo pensare che non deve fare nulla e che qualcun altro si occuperà di chiamare la polizia o di urlare dalla finestra.
Semplici regole per chiedere aiuto efficacemente
Sfortunatamente la storia di Catherine Genovese non è stata l’unica del suo genere. Vi sono diverse tragedie che riecheggiano il suo caso.
Nel 2003, il Ministro svedese per gli Affari Esteri, Anna Lindh, fu accoltellata in un grande magazzino affollato dopo essere stata inseguita su per la scala mobile. Vi erano dozzine di testimoni, ma nessuno intervenne per aiutarla.
La “sindrome Genovese” ha fornito un’aumentata conoscenza su semplici regole da ricordare quando si chiede aiuto per impedire che si crei l’effetto della “diffusione di responsabilità” e superare “l’ignoranza pluralistica”.
#1. Devi impedire che i testimoni abbiano dubbi sul fatto che si tratti o meno di un’emergenza, e che viene richiesto il loro intervento. Deve essere chiaro al testimone che ti stanno aggredendo e che non sei ubriaco, occorre essere espliciti e specifici.
#2. Devi impedire che si crei l’effetto della “diffusione di responsabilità” scegliendo un individuo al quale chiedere aiuto. È piuttosto facile ignorare un generico grido di “Aiuto” quindi devi essere preciso: “Tu coi baffi che indossi la maglia gialla vieni qui, questa è un’emergenza. Ho bisogno del TUO aiuto. Chiama la polizia, subito!”
#3. Devi incaricare qualcuno e renderlo responsabile. Quando una persona fornisce aiuto, le norme sociali all’interno della situazione si modificano, passando da una situazione di non-aiuto ad una di aiuto, ed è probabile che gli altri percepiscano la situazione come un’emergenza e che tutti agiscano in modo da essere di aiuto. In questo modo riuscirai a superare l’effetto dell’”ignoranza pluralistica”.
Ultima revisione
Bibliografia:
- “Atlante delle emozioni umane” di Tiffany Watt Smith
- “Casi classici della psicologia” di Geoff Rolls
- “Le armi della persuasione” di Robert Cialdini