25 Storie Brevi per la Crescita Personale possono aiutare a guardare il mondo sotto una luce diversa, a scegliere nuove strade, a scoprire le proprie potenzialità.
Le storie brevi per la Crescita Personale mettono in gioco sia l’emisfero sinistro del cervello sia quello destro. L’emisfero destro presiede alla creatività, all’immaginazione e alla vicenda, cioè alla componente viva del racconto, mentre l’emisfero sinistro ascolta le parole e coglie la logica del discorso, interpretando gli schemi e le sequenze di informazioni secondo cui il racconto si organizza.
Storie Brevi per la Crescita Personale hanno un modo brillante di catturare e distrarre la parte conscia della mente, permettendo al subconscio di trattare liberamente le informazioni che vengono offerte, facendo paragoni, classificazioni, abbinamenti e rispecchiamenti.
Visto che le nuove informazioni non vengono percepite come una minaccia al nostro sistema di convinzioni, esse sembrano semplici proposte inedite che il subconscio può passare in rassegna per trarne nuovi ideali, soluzioni o scelte.
L’obiettivo di chi racconta storie dev’essere quello di “orientare”, e non di manipolare. Solo così sarà possibile costruire relazioni basate sulla fiducia e rispetto reciproco che dureranno nel tempo.
25 Storie Brevi per la Crescita Personale
#1. Le ali sono fatte per volare
… E quando diventò grande, suo padre gli disse:
«Figlio mio: non tutti nascono con le ali. Anche se non sei obbligato a volare, sarebbe un peccato se ti limitassi a camminare avendo le ali che il buon Dio ti ha regalato».
«Ma io non so volare» rispose il figlio.
«Vieni» disse il padre. Lo prese per mano e lo condusse in montagna, sull’orlo di un precipizio. «Vedi, figliolo? Questo è il vuoto. Quando vorrai, potrai volare. Ma dovrai venire quassù, poi prendi un bel respiro e ti butti nel precipizio. Quando sarai nel vuoto distenderai le ali e riuscirai a volare».
Il figlio esitava. «E se cado? »
«Anche se cadessi non moriresti. Ti farai soltanto qualche graffio che ti renderà più forte per il prossimo tentativo» rispose il padre.
Il figlio ritornò in paese dagli amici, i compagni con cui aveva camminato per tutta la vita. I più ottusi gli dissero: «Ma sei impazzito? Perché dovresti farlo? Tuo padre è tutto matto. A che ti serve volare? Perché non la pianti con queste sciocchezze? E poi che bisogno c’è di volare? »
Anche gli amici dalla mente più lucida avevano paura: «Ma sarà poi vero? Non sarà mica pericoloso? Perché non cominci piano piano? Comunque, prima prova a buttarti giù da una scala o dalla cima di un albero. Certo che dalla cima di una montagna».
Il giovane ascoltò il consiglio di chi gli voleva bene.
Si arrampicò fin sulla cima di un albero e facendo appello a tutto il suo coraggio si buttò. Dispiegò le ali. Le agitò nell’aria con tutte le sue forze ma, purtroppo, si schiantò al suolo.
Con un grosso bernoccolo sulla fronte andò incontro al padre.
«Mi hai mentito! Non posso volare. Ci ho provato e guarda che botta! Non sono come te. Le mie ali sono solo di figura» si mise a piagnucolare.
«Figlio mio» disse il padre, «Per volare occorre creare lo spazio di aria necessario per dispiegare le ali. È come buttarsi con il paracadute: hai bisogno di una certa altezza per lanciarti.
Per imparare a volare, si deve sempre cominciare dal correre un rischio. Se non si vogliono correre rischi, sarà meglio rassegnarsi e continuare a camminare per sempre».
- Bucay, Jorge(Autore)
Tratto dal libro:
“Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay
#2. Il grillo e la moneta
Un saggio indiano aveva un caro amico che abitava a Milano.
Si erano conosciuti in India, dove l’italiano era andato con la famiglia per fare un viaggio turistico.
L’indiano aveva fatto da guida agli italiani, portandoli a esplorare gli angoli più caratteristici della sua patria.
Riconoscente, l’amico milanese aveva invitato l’indiano a casa sua. Voleva ricambiare il favore e fargli conoscere la sua città. L’indiano era molto restio a partire, ma poi cedette all’insistenza dell’amico italiano e un bel giorno sbarcò da un aereo alla Malpensa.
Il giorno dopo, il milanese e l’indiano passeggiavano per il centro della città. L’indiano, con il suo viso color cioccolato, la barba nera e il turbante giallo attirava gli sguardi dei passanti e il milanese camminava tutto fiero d’avere un amico così esotico.
Ad un tratto, in piazza San Babila, l’indiano si fermò e disse: «Senti anche tu quel che sento io?».
Il milanese, un po’ sconcertato, tese le orecchie più che poteva, ma ammise di non sentire nient’altro che il gran rumore del traffico cittadino. «Qui vicino c’è un grillo che canta», continuò, sicuro di sé, l’indiano.
«Ti sbagli», replicò il milanese «io sento solo il chiasso della città. E poi, figurati se ci sono grilli da queste parti».
«Non mi sbaglio. Sento il canto di un grillo», ribatté l’indiano e decisamente si mise a cercare tra le foglie di alcuni alberelli striminziti. Dopo un po’ indicò all’amico che lo osservava scettico un piccolo insetto, uno splendido grillo canterino che si rintanava brontolando contro i disturbatori del suo concerto.
«Hai visto che c’era un grillo? », disse l’indiano.
«È vero», ammise il milanese. «Voi indiani avete l’udito molto più acuto di noi bianchi».
«Questa volta ti sbagli tu», sorrise il saggio indiano. «Stai attento… ».
L’indiano tirò fuori dalla tasca una monetina e facendo finta di niente la lasciò cadere sul marciapiede. Immediatamente quattro o cinque persone si voltarono a guardare.
«Hai visto?», spiegò l’indiano. «Questa monetina ha fatto un tintinnio più esile e fievole del trillare del grillo. Eppure hai notato quanti bianchi lo hanno udito? ».
Tratto dal libro:
“Il canto del grillo” di Bruno Ferrero
#3. Il cocomero
Un viaggiatore attraversava a cavallo un ampio e arido altopiano; era in viaggio fin dalla mattina e ormai aveva caldo e si sentiva stanco ed affamato. Mentre guardava il sole scendere dietro le montagne a ovest, si chiedeva dove avrebbe trovato un posto per dormire e qualcosa da mangiare.
Arrivò all’estremità dell’altopiano e guardò verso il basso, dove si apriva una profonda valle. Molto lontano si distingueva un villaggio, si notava il fumo che usciva pigramente dai camini e formava piccole nuvole nel cielo della sera.
Il viaggiatore spronò il cavallo a percorrere il sentiero che scendeva verso la valle: già pregustava una bibita fresca e dissetante, il sapore dei dolci tipici e il piacere di una buona compagnia.
Quando arrivò all’ingresso del villaggio, sembrava non ci fosse nessuno. C’era una sola strada con case e pochi negozi sui lati ma, nella foschia della sera, si poteva intravedere qualche forma di attività, all’estremità opposta del villaggio.
Mentre incitava il cavallo in quella direzione, il viaggiatore si rese conto che tutti gli abitanti del luogo erano riuniti attorno ad una staccionata che circondava il campo. Avvicinandosi, cominciò a sentire grida nervose della gente che, quando lo vide, supplicò: «Ci aiuti, señor. Ci salvi dal mostro».
Il viaggiatore guardò nel campo. Riusciva a vedere solo un enorme cocomero.
«Per favore, ci aiuti señor, sta per attaccarci».
«Non è un mostro, è un cocomero. È solo un frutto estremamente grande».
«È un mostro e ci attaccherà. Ci aiuti!».
«È un cocomero».
«È un mostro».
«È un coco…».
Ma prima che potesse terminare la frase, i paesani arrabbiati lo tirarono giù dal cavallo e lo lanciarono nello stagno; poi lo legarono al cavallo e lo cacciarono via dal villaggio.
Circa un’ora dopo, un altro viaggiatore si trovava sullo stesso percorso, il sole era già basso all’orizzonte e l’uomo si sentiva anche più affamato e assetato del primo viaggiatore. Anche lui sognava una bibita e il buon cibo genuino della zona.
Scese nella vallata, arrivò ai confini del villaggio e vide la folla che gridava attorno alla staccionata.
«Qual è il problema?» chiese il secondo viaggiatore.
«Guarda, un mostro verde e cattivo. Ci attaccherà».
«Eccolo, dunque» disse il viaggiatore. «È grande e sicuramente cattivo. Lasciate che vi aiuti».
Tirò fuori la spada, scese dal cavallo, scavalcò la staccionata e, in men che non si dica, ci furono pezzi di cocomero che volavano ovunque. I paesani, coperti di melma rossa e semi neri, gioivano e applaudivano. Il viaggiatore venne portato in trionfo attraverso il villaggio e fu invitato a rimanere tutto il tempo che voleva.
Lo sistemarono nella miglior stanza dell’albergo, pagarono tutte le sue spese, gli offrirono il cibo e i vini migliori, e, in cambio, lui ascoltò le storie che illustravano la cultura, la storia e il modo di vivere di quel paese.
Poco a poco, quindi, si guadagnò la fiducia di quelle persone e iniziò a raccontare loro la sua cultura, la sua storia e il modo di vivere della sua gente. E, con molto tatto, spiegò loro la differenza tra un mostro e un cocomero.
E così, quando arrivò il momento giusto, quei paesani, piantarono e coltivarono i cocomeri nei loro campi. Quando, alla fine, giunse per il viaggiatore il momento di riprendere il cammino, egli passò accanto a file e file di cocomeri enormi, in attesa di essere raccolti.
Uno dei paesani gli disse: «Grazie, señor. Ci hai insegnato molte cose e ci hai fatto capire come coltivare i cocomeri».
E il viaggiatore disse: «Qui avete proprio dei bei cocomeri. Ma ricordate, anche i cocomeri, a volte, possono essere mostri».
- Owen, Nick(Autore)
Tratto da libro:
“Le parole portano lontano” di Nick Owen
#4. Il proverbio spagnolo
C’era una volta un giardiniere ammirato da tutti per la sua serenità, calma e tranquillità. Un giorno un giovane vuole trasformare l’ammirazione in emulazione e conoscere il segreto di questa capacità di apprezzare i lati positivi della vita.
Non gli resta che chiederglielo. E il giardiniere risponde che deve tutto a un proverbio che sua mamma spagnola amava citare: «Si hai remedio porquè te apuras y si no hai remedio porquè te apuras».
«Cosa significa?» Chiede il giovane che non conosce lo spagnolo.
«Significa semplicemente che se puoi fare qualcosa per rimediare o risolvere un problema è inutile preoccuparti: devi solo impegnarti per risolverlo. Se invece hai esaminato che non c’è possibilità di rimedio o di trovare soluzioni è inutile preoccuparti: devi impegnarti per accettare con animo sereno quello che non puoi modificare».
Il giovane capisce che questa è una buona strategia ma non riesce a immaginare come possa essere applicata, come si possa riuscire a riconoscere ciò che è modificabile da ciò che non lo è, quello che dipende da noi da quello che non dipende da noi..
Allora chiede al giardiniere come fa riconoscere questa differenza. Il giardiniere ricorda che anche per lui questa è stata la cosa più difficile, e gli ha richiesto molto impegno. Ma oggi crede di riuscire abbastanza facilmente.
Egli fa un esempio: «decidere quale seme piantare dipende da te, ma se tu decidi di seminare un certo giorno e poi quel giorno piove devi accettare la pioggia, modificare i tuoi piani e dedicarti a qualcos’altro».
Il giovane capisce, grazie alla semplicità dell’esempio, ma ha ancora dei dubbi e con ritrosa insistenza chiede al giardiniere se ha qualche regola generale da suggerirgli.
Il giardiniere ci pensa un po’ e poi risponde che lui ha tre regole fondamentale: misurare la propria potenza e i propri limiti; concepire se stesso come solutore di problemi senza compiacimento né arroganza; guardarsi dalla disperazione senza via d’uscita e dalla speranza senza fondamento.
- Casula, Consuelo C.(Autore)
Tratto dal libro:
“Giardinieri principesse porcospini” di Consuelo C. Casula
#5. La città rifiorirà
C’era una volta una piccola città dominata dalle ciminiere di una grande fabbrica. Il cielo della città era grigio per il fumo, grigio era il colore delle case, grigia la faccia della gente. I bambini erano pallidi e non avevano mai voglia di giocare.
Un giorno, arrivò nella piccola città uno sconosciuto. Era un uomo giovane, dal sorriso simpatico e gli occhi luminosi. Portava un voluminoso zaino rosso e blu e, sotto il braccio, un grosso ombrellone giallo.
Lo sconosciuto aprì l’ombrellone nella piazza della città e sotto dispose, in bell’ordine, delle statuine di vetro. I passanti si fermavano, guardavano le statuine, molti le compravano. In realtà lo sconosciuto non faceva molto per vendere le sue statuine.
Egli si interessava soprattutto alla gente: parlava con loro, li ascoltava sorridendo, li incoraggiava.
Finché, un mattino, lo sconosciuto estrasse dalle tasche del suo zaino dei gessetti colorati e si mise a disegnare sul marciapiede grigio una città meravigliosa dai colori splendidi, piena di verde, di gente sorridente, di bambini che giocavano.
Da tutta la città accorreva gente per vedere il magnifico disegno, che riusciva a riempire gli occhi e a riscaldare il cuore.
Quando il disegno fu terminato, lo sconosciuto distribuì fra tutti i presenti i suoi gessetti colorati.
Poi se ne andò. Nessuno l’ha mai più visto.
La gente della piccola città decise di staccare il marciapiede dal suolo e di esporlo nel museo cittadino perché tutti potessero vedere la città meravigliosa dipinta dallo strano venditore.
Ma pochi avevano voglia di andare al museo e i colori cominciarono a sbiadire.
Presto si dimenticarono di lui.
Ma un giorno alcuni bambini trovarono i gessetti colorati che lo sconosciuto aveva distribuito e cominciarono a riempire di colori e di meravigliosi disegni i muri grigi della città grigia.
Oggi la chiamano «La piccola città colorata dove la gente sorride».
Tratto dal libro:
“365 piccole storie per l’anima” di Bruno Ferrero
#6. Le cose che non mi servono per essere felice
Un maestro spirituale che predicava continuamente l’importanza di staccarsi dalle cose materiali, venne invitato assieme ai suoi discepoli a una fiera dell’artigianato, con oggetti provenienti da tutti i continenti.
Entrato nel primo padiglione, il maestro ci rimase il triplo del tempo impiegato dagli altri per guardare gli oggetti esposti.
Stupiti, i discepoli tornarono indietro per capire perché ci mettesse tanto e lo trovarono che ammirava incantato tutti gli oggetti esposti, uno per uno.
«Maestro», dissero i discepoli, «tu che parli tanto di spiritualità e di distacco, come mai ti sei fermato tanto davanti a questi oggetti?».
Sorridendo, il maestro li guardò negli occhi e rispose: «Cari discepoli, avete ragione. Il fatto è che sono veramente stupefatto dal vedere la quantità di cose materiali che non mi servono per essere felice».
Tratto dal libro:
“Ti amo ma sono felice anche senza di te” di Jaime Jaramillo
#7. Il vero valore dell’anello
«Sono venuto qui, maestro, perché mi sento così inutile che non ho voglia di fare nulla. Mi dicono che sono un inetto, che non faccio bene niente, che sono maldestro e un po’ tonto. Come posso migliorare? Che cosa posso fare perché mi apprezzino di più?».
Il maestro gli rispose senza guardarlo: «Mi dispiace, ragazzo. Non ti posso aiutare perché prima ho un problema da risolvere. Più tardi, magari…». E dopo una pausa aggiunse: «Ma se tu mi aiutassi, forse potrei risolvere il mio problema più in fretta e dopo aiutare te».
«Con piacere, maestro» rispose il giovane esitante, sentendosi di nuovo sminuito visto che la soluzione del suo problema era stata rimandata per l’ennesima volta.
«Bene» continuò il maestro. Si tolse un anello che portava al mignolo della mano sinistra e, porgendolo al ragazzo, ordinò: «Prendi il cavallo che c’è là fuori e va’ al mercato. Ho bisogno di vendere questo anello perché devo pagare un debito.
Vorrei ricavarne una bella somma, per cui non accettare meno di una moneta d’oro. Va’ e ritorna con la moneta d’oro il più presto possibile».
Il giovane prese l’anello e partì. Appena fu giunto al mercato, iniziò a offrire l’anello ai mercanti, che lo guardavano con un certo interesse finché il giovane diceva il prezzo.
Quando il giovane menzionava la moneta d’oro, alcuni si mettevano a ridere, altri giravano la faccia dall’altra parte e soltanto un vecchio gentile si prese la briga di spiegargli che una moneta d’oro era troppo preziosa in cambio di un anello.
Pur di aiutarlo, qualcuno gli offrì una moneta d’argento e un recipiente di rame, ma il giovane aveva ricevuto ordine di non accettare meno di una moneta d’oro e rifiutò l’offerta.
Dopo aver proposto il gioiello a tutte le persone che incrociava al mercato – e saranno state più di cento – rimontò a cavallo demoralizzato per il fallimento e imboccò la via del ritorno.
Quanto avrebbe desiderato avere una moneta d’oro per regalarla al maestro e liberarlo dalle sue preoccupazioni! Così finalmente avrebbe ottenuto il suo consiglio e aiuto.
Entrò nella stanza.
«Maestro» disse. «Mi dispiace. Non è possibile ricavare quello che chiedi. Forse avrei potuto ottenere due o tre monete d’argento, ma credo di non riuscire a ingannare nessuno riguardo al vero valore dell’anello».
«Quello che hai detto è molto importante, giovane amico» rispose il maestro sorridendo. «Prima dobbiamo conoscere il vero valore dell’anello. Rimonta a cavallo e vai dal gioielliere. Chi lo può sapere meglio di lui?
Digli che vorresti vendere l’anello e chiedigli quanto ti darebbe. Ma non importa quello che ti offre: non glielo vendere. E ritorna qui con il mio anello». Il giovane riprese di nuovo a cavalcare.
Il gioielliere esaminò l’anello alla luce della lanterna, lo guardò con la lente, lo soppesò e disse al ragazzo: «Di’ al maestro, ragazzo, che se vuole vendere oggi stesso il suo anello, non posso dargli più di cinquantotto monete d’oro».
«Cinquantotto monete d’oro?» esclamò il giovane.
«Sì» rispose il gioielliere. «Lo so che avendo più tempo a disposizione potremmo ricavare circa settanta monete d’oro, ma se ha urgenza di vendere…».
Il giovane si precipitò dal maestro tutto emozionato a raccontargli l’accaduto.
«Siediti» disse il maestro dopo averlo ascoltato. «Tu sei come questo anello: un gioiello unico e prezioso. E come tale puoi essere valutato soltanto da un vero esperto. Perché pretendi che chiunque sia in grado di scoprire il tuo vero valore?».
E così dicendo s’infilò di nuovo l’anello al mignolo della mano sinistra.
- Bucay, Jorge(Autore)
Tratto dal libro:
“Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay
#8. Il segreto della felicità
Un mercante mandò il figlio ad apprendere il segreto della felicità dal più saggio di tutti gli uomini. Il ragazzo vagò per quaranta giorni nel deserto, finché giunse a un meraviglioso castello in cima a una montagna. Là viveva il Saggio che il ragazzo cercava.
Invece di trovare un sant’uomo, però, il nostro eroe entrò in una sala dove regnava un’attività frenetica: mercanti che entravano e uscivano, ovunque gruppetti che parlavano, una orchestrina che suonava dolci melodie.
E c’era una tavola imbandita con i più deliziosi piatti di quella regione del mondo. Il Saggio parlava con tutti, e il ragazzo dovette attendere due ore prima che arrivasse il suo turno per essere ricevuto.
Il Saggio ascoltò attentamente il motivo della visita, ma disse al ragazzo che in quel momento non aveva tempo per spiegargli il segreto della felicità. Gli suggerì di fare un giro per il palazzo e di tornare dopo due ore.
«Nel frattempo, voglio chiederti un favore», concluse il Saggio, consegnandogli un cucchiaino da tè su cui versò due gocce d’olio. «Mentre cammini, porta questo cucchiaino senza versare l’olio».
Il ragazzo cominciò a salire e scendere le scalinate del palazzo, sempre tenendo gli occhi fissi sul cucchiaino.
In capo a due ore, ritornò al cospetto del Saggio.
Allora, gli domandò questi: «Hai visto gli arazzi della Persia che si trovano nella mia sala da pranzo? Hai visto i giardini che il Maestro dei Giardinieri ha impiegato dieci anni a creare? Hai notato le belle pergamene della mia biblioteca?»
Il ragazzo, vergognandosi, confessò di non avere visto niente. La sua unica preoccupazione era stata quella di non versare le gocce d’olio che il Saggio gli aveva affidato.
«Ebbene, allora torna indietro e guarda le meraviglie del mio mondo», disse il Saggio. «Non puoi fidarti di un uomo se non conosci la sua casa».
Tranquillizzato, il ragazzo prese il cucchiaino e di nuovo si mise a passeggiare per il palazzo, questa volta osservando tutte le opere d’arte appese al soffitto e alle pareti.
Notò i giardini, le montagne circostanti, la delicatezza dei fiori, la raffinatezza con cui ogni opera d’arte disposta al proprio posto. Di ritorno al cospetto del Saggio, riferì particolareggiatamente su tutto quello che aveva visto.
«Ma dove sono le due gocce d’olio che ti ho affidato?» domandò il Saggio.
Guardando il cucchiaino, il ragazzo si accorse di averle versate. «Ebbene, questo è l’unico consiglio che ho da darti», concluse il più Saggio dei saggi.
«Il segreto della felicità consiste nel guardare tutte le meraviglie del mondo senza dimenticare le due gocce d’olio nel cucchiaino».
Tratto dal libro:
“L’Alchimista” di Paulo Coelho
#9. L’asino e il pozzo
C’erano una volta un uomo anziano e un vecchio asino. Un giorno, l’asino cadde in un pozzo ormai esaurito, ma profondo. Il povero animale ragliò tutto il giorno e l’uomo cercò di pensare a come tirarlo fuori dal pozzo.
Alla fine, però, pensò che l’asino era molto vecchio, debole, senza contare che da tempo aveva deciso di riempire di terra il pozzo che era ormai prosciugato. Decise di seppellire là il vecchio asino.
Chiese a diversi vicini di aiutarlo; tutti presero una pala e cominciarono a gettare terra nel pozzo. L’asino si mise a ragliare con tutta la forza che aveva. Dopo un po’, però, tra lo stupore generale, dal pozzo non venne più alcun suono.
Il padrone dell’asino guardò nel pozzo, credendo che l’asino fosse morto, ma vide uno spettacolo incredibile: tutte le volte in cui veniva gettata una palata di terra nel pozzo, l’asino la schiacciava con gli zoccoli.
Il suo padrone e i vicini continuarono a gettare terra nel pozzo e l’asino continuò a schiacciarla, formando un mucchio sempre più alto, finché riuscì a saltare fuori.
La vita non smetterà mai di gettarci addosso palate di terra, ma noi riusciremo a uscire dal pozzo, se ogni volta reagiremo.
Ogni problema ci offre l’opportunità di compiere un passo avanti. Ogni problema ha una soluzione, se non ci diamo per vinti.
- Ma noi abbiamo le ali
- Marca: PICCOLE STORIE PER L'ANIMA
- Tipo di prodotto: ABIS_BOOK
- Ferrero, Bruno(Autore)
Tratto dal libro:
“Ma noi abbiamo le ali” di Bruno Ferrero
#10. L’aquila che si credeva un pollo
Un uomo trovò un uovo d’aquila e lo mise nel nido di una chioccia. L’uovo si schiuse contemporaneamente a quelle della covata, e l’aquilotto crebbe insieme ai pulcini. Per tutta la vita l’aquila fece quel che facevano i polli del cortile, pensando di essere uno di loro.
Frugava il terreno in cerca di vermi e insetti, chiocciava e schiamazzava, scuoteva le ali alzandosi da terra di qualche decimetro. Trascorsero gli anni, e l’aquila divenne molto vecchia.
Un giorno vide sopra di sé, nel cielo sgombro di nubi, uno splendido uccello che planava, maestoso ed elegante, in mezzo alle forti correnti d’aria, muovendo appena le robuste ali dorate.
La vecchia aquila alzò lo sguardo, stupita: «Chi è quello?», chiese. «È l’aquila, il re degli uccelli» rispose il suo vicino. «Appartiene al cielo. Noi invece apparteniamo alla terra, perché siamo polli».
E così l’aquila visse e morì come un pollo, perché pensava di essere tale.
Tratto dal libro:
“Messaggio per un’aquila che si crede un pollo” di Anthony De Mello
#11. Il cavallo sulla strada
Un giorno stavo tornando a casa da scuola, quando un cavallo, che era scappato con le redini sulla groppa, superò un gruppo di noi ed entrò nel campo di un contadino alla ricerca di un po’ di acqua da bere. Sudava abbondantemente, e il contadino non l’aveva visto, cosicché lo catturammo noi.
Io saltai in groppa al cavallo e, visto che aveva le briglie, presi in mano le redini e dissi: «Hop! Hop!», indirizzandolo verso la strada. Sapevo che il cavallo avrebbe girato nella direzione giusta. E il cavallo si mise a trottare e a galoppare lungo la strada.
Ogni tanto si scordava di essere sulla strada e si buttava in qualche campo, allora io gli davo una scrollatina e richiamavo la sua attenzione sul fatto che era sulla strada che doveva stare.
E alla fine, a circa quattro miglia da dove gli ero salito in groppa, si infilò nel recinto di una fattoria e il contadino disse: «Dunque è così che è tornato quello scemo. Ma dove l’hai trovato?», e io dissi: «A circa quattro miglia da qui».
«E come hai fatto a sapere che dovevi venire qui?».
«Io non lo sapevo», risposi «Lo sapeva il cavallo. Io non ho fatto altro che mantenere la sua attenzione sulla strada».
Tratto dal libro:
“La mia voce ti accompagnerà. I racconti didattici” di Milton Erickson
#12. L’elefante incatenato
«Non posso» – gli dissi – «Non posso!»
«Ne sei sicuro?» – mi chiese lui.
«Sì, mi piacerebbe tanto sedermi davanti a lei e dirle quello che provo… Ma so che non posso farlo».
Jorge si sedette come un Buddha su quelle orribili poltrone azzurre del suo studio. Sorrise, mi guardò negli occhi e, abbassando la voce come faceva ogni volta che voleva essere ascoltato attentamente, mi disse:
«Ti racconto una storia».
E senza aspettare il mio assenso iniziò a raccontare:
Quando ero piccolo adoravo il circo, mi piacevano soprattutto gli animali. Ero attratto in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini.
Durante lo spettacolo quel bestione faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri. E anche se la catena era grossa e forte, mi pareva ovvio che un animale in grado di sradicare un albero potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.
Era davvero un bel mistero.
Che cosa lo teneva legato, allora?
Perché non scappava?
Quando avevo cinque o sei anni nutrivo ancora fiducia nella saggezza dei grandi. Allora chiesi a un maestro, a un padre o a uno zio di risolvere il mistero dell’elefante.
Qualcuno di loro mi spiegò che l’elefante non scappava perché era ammaestrato. Allora posi la domanda ovvia: «Se è ammaestrato, perché lo incatenano?». Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.
Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto e ci pensavo soltanto quando mi imbattevo in altre persone che si erano poste la stessa domanda.
Per mia fortuna, qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato abbastanza saggio da trovare la risposta giusta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.
Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto. Sono sicuro che, in quel momento, l’elefantino provò a spingere, a tirare e sudava nel tentativo di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui.
Lo vedevo addormentarsi sfinito e il giorno dopo provarci di nuovo e così il giorno dopo e quello dopo ancora…
Finché un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l’animale accettò l’impotenza rassegnandosi al proprio destino.
L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché, poveretto, crede di non poterlo fare. Reca impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata subito dopo la nascita.
E il brutto è che non è mai più ritornato seriamente su quel ricordo.
E non ha mai più messo alla prova la sua forza, mai più…
«Proprio così, Demiàn. Siamo un po’ tutti come l’elefante del circo: andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti che ci tolgono la libertà.
Viviamo pensando che “non possiamo” fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, quando eravamo piccoli, ci avevamo provato ed avevamo fallito.
Allora abbiamo fatto come l’elefante, abbiamo inciso nella memoria questo messaggio: non posso, non posso e non potrò mai.
Siamo cresciuti portandoci dietro il messaggio che ci siamo trasmessi da soli, perciò non proviamo più a liberarci del paletto.
Quando a volte sentiamo la stretta dei ceppi e facciamo cigolare le catene, guardiamo con la coda dell’occhio il paletto e pensiamo: non posso, non posso e non potrò mai».
Jorge fece una lunga pausa. Quindi si avvicinò, si sedette sul pavimento davanti a me e proseguì:
«È quello che succede anche a te, Demiàn. Vivi condizionato dal ricordo di un Demiàn che non esiste più e che non ce l’aveva fatta.
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!»
- Bucay, Jorge(Autore)
Tratto dal libro:
“Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay
#13. Il falco pigro
Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al maestro di falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato.
«E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco.
Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo.
Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema.
Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino.
«Portatemi l’autore di questo miracolo», ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino.
«Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?» gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali e ha incominciato a volare».
- Ma noi abbiamo le ali
- Marca: PICCOLE STORIE PER L'ANIMA
- Tipo di prodotto: ABIS_BOOK
- Ferrero, Bruno(Autore)
Tratto dal libro:
“Ma noi abbiamo le ali” di Bruno Ferrero
#14. La lezione del barattolo pieno
Un professore, prima di iniziare la sua lezione di filosofia, pose alcuni oggetti davanti a sé, sulla cattedra.
Senza dire nulla, quando la lezione iniziò, prese un grosso barattolo di maionese vuoto e lo riempì con delle palline da golf. Domandò quindi ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno e tutti risposero di sì.
Allora, il professore rovesciò dentro il barattolo una scatola di sassolini, scuotendolo leggermente. I sassolini occuparono gli spazi fra le palline da golf. Domandò quindi, di nuovo, ai suoi studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero di sì.
Il professore, rovesciò dentro il barattolo una scatola di sabbia. Naturalmente, la sabbia occupò tutti gli spazi liberi. Egli domandò ancora una volta agli studenti se il barattolo fosse pieno ed essi risposero con un sì unanime.
Il professore tirò fuori da sotto la cattedra due bicchieri di vino rosso e li rovesciò interamente dentro il barattolo, riempiendo tutto lo spazio fra i granelli di sabbia. Gli studenti risero!
Quando la risata finì, il professore disse: «Ora vorrei che voi consideraste questo barattolo come la vostra vita:
Le palline da golf sono le cose importanti; la vostra famiglia, i vostri figli, la vostra salute, i vostri amici e le cose che preferite; cose che se rimanessero dopo che tutto il resto fosse perduto riempirebbero comunque la vostra esistenza.
I sassolini sono le altre cose che contano, come il vostro lavoro, la vostra casa, l’automobile. La sabbia è tutto il resto, le piccole cose.
Se metteste nel barattolo per prima la sabbia non resterebbe spazio per i sassolini e per le palline da golf. Lo stesso accade per la vita. Se usate tutto il vostro tempo e la vostra energia per le piccole cose, non vi potrete mai dedicare alle cose che per voi sono veramente importanti.
Curatevi delle cose che sono fondamentali per la vostra felicità. Giocate con i vostri figli, tenete sotto controllo la vostra salute. Portate il vostro partner a cena fuori. Giocate altre 18 buche! Fatevi un altro giro sugli sci!
C’è sempre tempo per sistemare la casa e per buttare l’immondizia. Dedicatevi prima di tutto alle palline da golf, le cose che contano sul serio. Definite le vostre priorità, tutto il resto è solo sabbia».
Una studentessa alzò la mano e chiese che cosa rappresentasse il vino. Il professore sorrise. «Sono contento che tu l’abbia chiesto. Serve solo a dimostrare che per quanto possa sembrare piena la tua vita c’è sempre spazio per un paio di bicchieri di vino con un amico».
Anonimo
#15. I cucchiai
Una donna morì, la sua anima lasciò il corpo e volò in cielo.
Bussò al Portone dell’arcangelo, un grande Portone di legno che, aprendosi, fece cigolare gli antichi cardini rugginosi.
Quando l’arcangelo vide la donna, inspirò a fondo e disse: «Alla fine sei arrivata; temevamo questo momento».
«Che intendi» disse la donna, «perché temevate il mio arrivo?» «Beh” disse l’arcangelo, «sai che il mio lavoro è dirigere le persone verso il Paradiso oppure verso l’Inferno. Il problema è che con te non sappiamo che fare».
«Che vuol dire che non sapete che fare?»
«Beh» rispose l’arcangelo, «noi abbiamo delle bilance, un’ampia gamma di bilance con le quali valutiamo il bene e il male compiuto da ognuno durante la vita. Il piatto più pesante è quello che determina se quell’anima deve andare su in Paradiso o giù all’Inferno».
«E allora?»
«Nel tuo caso, e questo è il nostro problema, quando pesiamo la tua vita, c’è un perfetto equilibrio. Non era mai capitato, quindi non sappiamo cosa fare con te».
«Non sapete cosa fare con me!!! E allora dove andrò? Cosa farete?».
«Abbiamo pensato di far decidere a te». La donna rimase spiazzata. «Dovrei scegliere se andare in Paradiso o all’Inferno?»
«Si» disse l’arcangelo. Ci fu una lunga pausa e poi la donna disse «Che differenza c’è tra i due?»
«Tra Paradiso e Inferno? Non c’è alcuna differenza concreta» rispose il guardiano del Portone.
«Non c’è differenza? Non c’è alcuna differenza? Stai scherzando?»
«No, per niente, non c’è nulla da scherzare. Vogliamo che tu scelga la tua dimora eterna».
Ci fu un’altra lunga pausa e alla fine la donna disse: «Sei sicuro che non ci siano differenze?»
«Beh» disse l’arcangelo, «vuoi dare un’occhiata prima di decidere?» La donna annuì.
«Da dove vuoi iniziare? Su o Giù?»
«Direi Su» disse la donna.
«Bene. Si tratta i un posto molto grande, da quale zona vuoi iniziare?» La donna sembrava spaesata.
«Facciamo così, quali erano le tue passioni da viva?»
«Ah, è facile: mangiare e bere»
«Allora iniziamo dal ristorante?» La donna annuì, quindi entrarono nell’Ascensore Celeste.
Il Ristorante Celeste era molti piani su. Ancora prima che le porte si aprissero, la donna poté annusare aromi deliziosi, profumi che trasmettevano gioia e abbandono.
Quando le porte si aprirono, vide lunghi tavoli, coperti da tovaglie bianche, con delle semplici panche su ogni lato. Sulle panche sedevano persone rilassate dall’aria amichevole: erano sorridenti, avevano un aspetto florido, e chiacchieravano amabilmente.
Sui tavoli c’erano grandi zuppiere d’argento piene delle pietanze che emanavano quegli aromi deliziosi.
La donna si rese conto che desiderava mangiare, assaggiare il cibo che aveva quel profumo meraviglioso. Si accorse, dentro di sé, di un senso di vuoto che chiedeva di essere riempito e cominciò a venirle l’acquolina in bocca.
Poi si accorse di qualcosa di strano: sul tavolo non c’erano posate, né forchette, né coltelli, niente cucchiai da minestra o cucchiaini, c’erano solo dei lunghissimi cucchiai da portata. Erano cucchiai enormi: ognuno misurava almeno un metro e mezzo di lunghezza.
L’arcangelo chiese alla donna cosa ne pensasse. «È meraviglioso» disse lei, «ma ora sono curiosa di guardare l’altro posto per vedere se sono davvero uguali».
Scesero con l’Ascensore infernale e la donna si sorprese nel notare che non c’erano differenze nella pressione o nella temperatura. Prima che le porte si aprissero sul Ristorante Infernale, cominciarono a diffondersi i deliziosi aromi che già avevano sentito nel Ristorante Celeste, profumi che trasmettevano lo stesso senso di gioia e abbandono.
Quando le porte si aprirono, la donna vide dei lunghi tavoli, coperti da tovaglie bianche e contornati da semplici panche, come prima. Sui tavoli c’erano le stesse zuppiere d’argento che emanavano gli stessi aromi deliziosi.
La donna di nuovo, si rese conto di aver fame, di voler assaggiare il cibo che aveva quel profumo meraviglioso. Si accorse dello stesso senso di vuoto dentro di sé che voleva essere riempito e dell’acquolina in bocca.
Si rese conto anche della stessa strana situazione riguardo le posate: non c’erano forchette, né coltelli, niente cucchiai da minestra o cucchiaini, solo dei lunghissimi cucchiai da portata. Erano cucchiai enormi: ognuno misurava almeno un metro e mezzo di lunghezza.
Poi realizzò che una differenza c’era. Si era tanto concentrata sui profumi del cibo, sulla semplice eleganza dell’apparecchiatura e sulla stranezza delle posate che non si era accorta del silenzio e dell’atmosfera cupa che caratterizzavano l’ambiente.
Sulle panche c’erano file di persone, sedute una di fronte all’altra, come nel Ristorante Celeste. Ma mentre in Paradiso erano tutti rilassati, amichevoli, sorridenti, floridi e impegnati in amabili conversazioni, qui le persone erano completamente diverse.
I commensali del Ristorante Infernale erano arcigni e minacciosi, e si guardavano l’un l’altro con sospetto e cattiveria. E anche se la quantità della pietanza contenuta nelle zuppiere equivaleva a quella del Ristorante Celeste, qui la gente appariva emaciata e affamata, come se non mangiasse da settimane.
La donna si voltò verso il Guardiano del Portone.
«A parte le persone, i ristoranti del Paradiso e dell’Inferno sono identici. Qui, però, nonostante l’abbondanza di cibo, le persone sembrano affamate. Cos’è che provoca questa differenza?».
L’arcangelo disse: «Si, ti ho detto che non ci sono differenze concrete, ma mi sono dimenticato di accennare alle differenze che caratterizzano l’atteggiamento delle persone. Hai visto i cucchiai: il fatto è che qui all’Inferno le persone cercano di mangiare ognuna per sé, mentre in Paradiso amano imboccarsi l’un l’altro».
- Owen, Nick(Autore)
Tratto dal libro:
“Le parole portano lontano” di Nick Owen
#16. Il vanitoso
Il secondo pianeta che visitò il piccolo Principe era abitato da un vanitoso. «Ah! ah! Ecco la visita di un ammiratore», gridò da lontano il vanitoso appena scorse il piccolo Principe. Per i vanitosi tutti gli altri uomini sono degli ammiratori.
«Buon giorno», disse il piccolo Principe, «che buffo cappello avete!»
«È per salutare», gli rispose il vanitoso. «È per salutare quando mi acclamano, ma sfortunatamente non passa mai nessuno da queste parti».
«Ah si?» disse il piccolo Principe che non capiva.
«Batti le mani l’una contro l’altra», consigliò il vanitoso.
Il piccolo Principe batté le mani l’una contro l’altra e il vanitoso salutò con modestia sollevando il cappello. È più divertente che la visita al re, si disse il piccolo Principe, e ricominciò a batter le mani l’una contro l’altra.
Il vanitoso ricominciò a salutare sollevando il cappello. Dopo cinque minuti di questo esercizio il piccolo Principe si stancò della monotonia del gioco: «E che cosa bisogna fare», domandò, «perché il cappello caschi?» Ma il vanitoso non l’intese. I vanitoso non sentono altro che le lodi.
«Mi ammiri molto, veramente?» domandò al piccolo Principe.
«Che cosa vuol dire ammirare?»
«Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo più bello, più elegante, più ricco e più intelligente di tutto il pianeta».
«Ti ammiro», disse il piccolo Principe, alzando un poco le spalle, «ma tu che te ne fai?» E il piccolo principe se ne andò.
Decisamente i grandi sono ben bizzarri, diceva con semplicità a se stesso, durante il suo viaggio.
Tratto dal libro:
“Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupery
#17. In una notte di temporale
Pioveva a dirotto quella notte: goccioloni che cadevano al suolo. Le gocce del temporale di quella sera colpivano il minuscolo corpicino di una capretta bianca.
La capretta, senza pensarci, si rifugiò in una capanna abbandonata sul pendio della collina. Si mise a riposare nell’oscurità aspettando tranquillamente che il temporale finisse… ma ad un certo punto, ansimando e facendo un verso cupo, qualcuno entrò nella capanna. Chissà chi era?
La capretta si nascose e drizzò le orecchie. “Tic, toc, tic, toc.” Passi. Qualcosa di duro batteva sul pavimento. Era rumore di zoccoli. Doveva essere sicuramente una capra.
La capretta, sollevata, si rivolse al nuovo arrivato: «Bel temporale, vero?».
«Come? Chi ha parlato? Con questo buio, non si vede un accidente».
La capretta un po’ stupita dalla voce, rispose timorosa: «Sono appena arrivata anch’io. Ma non è così terribile qui».
«Ma sì, è vero… per fortuna ho trovato questo rifugio dopo essermi trascinato sotto il temporale».
Tirò un sospiro di sollievo e appoggiò il bastone sul pavimento. Già: quell’ombra indistinta nella grotta, avanzava con un bastone, e non era una capra, ma un lupo. Per di più era un lupo con una bocca così grossa, che avrebbe inghiottito un cammello e dovete sapere che andava ghiotto di carne di capra.
«Che sollievo che ci sia anche tu». La capra non aveva ancora capito che il suo compagno era un lupo.
«Anch’io, se fossi capitato in questa capanna da sola, in una notte di temporale, mi sarei sentita perduta». Anche il lupo non aveva capito che il suo compagno era una capra.
«Ahi, ahi, che male».
«Cosa c’è?».
«Ho tutte le zampe doloranti. Ho camminato a lungo per arrivare qui».
«Terribile! Allungale pure verso di me».
«Oh, grazie, così va molto meglio».
La capretta, convinta che ciò che l’aveva sfiorata fosse la zampa di una capra, pensò: «Però, per essere una zampa mi sembra piuttosto morbida».
«Eeecciuuù!» starnutì il lupo.
«Tutto bene? Mmmm… Devi esserti beccato un raffreddore».
«Penso anch’io. Non sento per niente gli odori».
«Beeeee, ora capisco perché hai questa voce». «Ha, ha, ha, dev’essere per questo».
La capretta, sentendo la risata del lupo, stava per dire: «Che voce profonda da lupo», ma pensando che fosse scortese lo tenne per sé.
Anche il lupo stava per dire: «Che voce stridula da capra», ma pensando che il compagno si sarebbe offeso, preferì tacere. Si sentiva solo l’ululato del vento e il picchiettare della pioggia sulla capanna.
«Da dove vieni?» chiese la capretta
«Vengo dalle Montagne delle Rocce Rosse» disse il lupo.
«Vivi in un posto molto pericoloso?» Sapeva infatti che lì c’era la valle di lupi. «Però, che coraggio. Io vengo dalle colline verdeggianti».
«Ah, che invidia… Da quelle parti ci sono tante cose buone da mangiare». Le buone cose da mangiare, come voi avete ben capito, erano le capre. «Eh sì, ce n’è in abbondanza» disse la capretta.
In quel momento si sentì il brontolio delle loro pance.
«Ho una fame del diavolo» disse il lupo.
«Davvero, anch’io ho lo stomaco vuoto».
«Sarebbe bello avere qualcosa da mettere sotto i denti, quando si ha fame».
«Ti capisco. Stavo proprio pensando la stessa cosa».
«Di solito vado a cercare qualcosa da mangiare nei dintorni, ai piedi della montagna, dove abito».
«Anch’io faccio così».
«Da quelle parti il cibo è molto buono».
«Sì, il profumo è invitante».
«E morbido da masticare».
«Anche se lo mangi tutti i giorni non ti stanca».
«Anzi, se lo mangi una volta non puoi fame a meno».
«Sì, è proprio vero».
«Ah, solo a pensarci muoio dalla voglia. Ho l’acquolina in bocca».
«Ah, che fame». E contemporaneamente:
«Che buona l’erba» disse la capra. «Che buona la carne» disse il lupo …
Ma il fragore di un tuono coprì quelle parole.
«Sai, da bambino ero magrolino. Anche adesso lo sono, ma a quei tempi mia madre mi diceva sempre: “Mangia ancora, mangia ancora!”».
«Ma guarda, anche la mia a pranzo mi diceva: “Se non mangi abbastanza non riuscirai a scappare. Ti mancherà il fiato per correre”».
«Anche a casa mia dicevano la stessa cosa: “Ti mancherà il fiato per correre”»
«Ha, ha, ha, ci assomigliamo veramente molto».
«Beeee, anche se non ti vedo, sicuramente ci assomigliamo».
Ci fu un lampo e l’interno della capanna si illuminò a giorno.
«Ah, mi sono girato, mi hai visto? Ci assomigliamo?»
«… Sono rimasto abbagliato e ho chiuso istintivamente gli occhi»
«Ma quando li hai aperti, mi hai visto?»
Improvvisamente il boato di un tuono fece tremare la capanna.
«Aiuto!» I due si strinsero.
«Ah, scusami, è che mi sono spaventato».
«Sì, non importa… anch’io ho avuto paura»
«Però, ci assomigliamo molto, vero?».
«Abbiamo avuto la stessa reazione di paura»
«La prossima volta, perché desidero vederti con il bel tempo».
«Va bene. Pensavo che sarebbe stata una pessima serata, per via di questo brutto temporale, ma siccome ho incontrato un buon amico, si è rivelata migliore di quanto non immaginassi».
«Guarda, il temporale è cessato».
«Oh, è vero».
Tra le nuvole cominciavano ad apparire le stelle.
«Allora, per domani a mezzogiorno, va bene?».
«Sì, dopo il temporale c’è sempre bel tempo».
«E il luogo dell’appuntamento».
«Davanti a questa capanna ti va bene».
«Ok. Ma se non ti riconosco dalla faccia».
«Già, per sicurezza diremo: “Sono chi ti è diventato amico in una notte di temporale”».
«Ha, ha, ha, basterà anche solo: “In una notte di temporale”».
«D’accordo, la parola d’ordine sarà: “In una notte di temporale” . .
«Ciao “In una notte di temporale”»
«Arrivederci, ”In una notte di temporale “».
Adesso che il temporale era cessato, soffiava un leggero venticello fresco. Nell’oscurità, prima dell’alba, le due ombre si allontanarono, agitando le mani.
Che cosa sarebbe successo il giorno dopo, ai piedi di quella collina… Questo neanche il sole, che aveva appena mostrato la faccia, per far brillare le gocce sulle foglie, poteva saperlo… E tu cosa dici?
Il lupo avrebbe o no divorato la capretta, prima che questa avesse detto le magiche parole dell’amicizia “In una notte di temporale”… e la capretta avrebbe riconosciuto o no la voce dell’amico lupo o si sarebbe data subito alla fuga ?
Chi lo sa?
- Kimura, Yuichi(Autore)
Tratto dal libro:
“In una notte di temporale” di Yuichi Kimura
#18. Il cambio degli armadi
C’era una volta una principessa che decide di fare ordine nel suo armadio. Apre e scopre che è strapieno di abiti e abitudini che ha indossato durante le diverse stagioni della vita.
Ce ne sono di colori chiari, scuri, sobri, accesi, di forme e tessuti diversi, larghi, stretti, lunghi, corti. Alcuni che appesantiscono, rallentano e impigriscono i suoi passi, e altri che la lasciano libera di muoversi, di camminare con passo leggero e veloce, alcuni che coprono dalla testa ai piedi, altri che con seducenti trasparenze esaltano le forme femminili.
Trova abiti che indossava quando era bambina, adolescente, giovane donna, abiti che ora non le stanno più. Trova abiti e abitudini che amici, amiche, parenti, amanti le hanno messo addosso, con le etichette ben chiare di quello che lei avrebbe dovuto rappresentare per soddisfare le loro aspettative.
Ricorda chi glieli ha prestati o messi addosso, con quale intenzione e come lei si sia prestata a indossarli per essere come gli altri volevano che fosse o perché in quel momento o in quell’occasione non sapeva come apparire. Nota che nell’armadio ci sono anche degli abiti che non ha mai indossato. Come mai?
Per pudore, per timore, per riservatezza o perché ha perso un’occasione? Li prova per vedere come le stanno: ora può scegliere se indossarli adesso o se eliminarli dalla vista dei rimpianti.
Ora che ha visto che nel suo armadio ci sono abiti che non vuole più mettere addosso predispone tre scatole: una in cui disporre abiti e abitudini da restituire a chi glieli ha prestati, una seconda ciò che non le sta più bene e una terza ciò che potrà indossare in qualche occasione speciale ma che è inutile tenere in vista.
Lascia così solo abiti e abitudini che oggi sono adatti al suo corpo, alla sua età, ai suoi desideri, al suo cuore, alla stagione della sua vita.
Dopo aver svuotato l’armadio guarda il vuoto che ha creato. E avverte un senso pieno di libertà. Finalmente si è liberata di abiti e abitudini del passato che non ha più intenzione di indossare. Ora può riempire quel vuoto con una pienezza che avverte profondamente.
Ora che sente questa pienezza sa che da ora in poi indosserà solo abiti costruiti su misura dei suoi desideri e delle sue capacità e con una forma che metta in risalto i suoi migliori aspetti. Abiti che possano evidenziare chi è lei e chi vuole diventare, secondo le varie stagioni della vita.
- Casula, Consuelo C.(Autore)
Tratto dal libro:
“Giardiniere principesse porcospini” di Consuelo C. Casula
#19. Il monaco e il predone
C’era una volta un monaco. Un piccolo monaco che viveva da solo in una modesta e minuscola capanna nel deserto. Passava il tempo pregando e per guadagnare da vivere fabbricava cestini e cappelli intrecciando foglie di palma.
Molta gente veniva dalla città e gli sottoponeva i suoi problemi e lui cercava di aiutarli e confortarli.
Il piccolo monaco indossava un vestito di tela grezza, mangiava pane ed acqua e non possedeva proprio niente eccetto un libro speciale, che era il suo tesoro e che leggeva ogni giorno.
Un giorno, un predone entrò come una furia nella capanna del monaco. Un predone truce e cattivo. Con una folta barba scarmigliata e un’affilata e minacciosa spada. «Dammi il tuo tesoro», sbraitò.
Il piccolo monaco gli consegnò il suo libro prezioso e unico e stette tristemente a guardare il predone che se ne andava.
Quando il predone arrivò alla città, si precipitò nella bottega di un mercante e senza tanti preamboli gli chiese il valore di quel libro straordinario.
«Ma io non so niente di libri», si lamentò il mercante.
«Io ho bisogno di soldi! Tanti! Dimmi quanto vale questo libro e io lo venderò».
«Non lo so proprio», pigolò il mercante, sfogliando il libro.
«Ma conosco qualcuno che se ne intende, un vero esperto. Lasciami il libro per un giorno o due e glielo chiederò».
«D’accordo!», grugnì il predone, sguainando la spada. «Tornerò fra due giorni. Fai in modo che il libro sia qui, quando tornerò!»
Quella sera, dopo la chiusura della bottega, il mercante montò sul suo mulo e lo spronò nel deserto. Cavalcò per chilometri finché giunse alla piccola capanna e incontrò il piccolo monaco.
«Ho un libro», gli spiegò. «Un tipo grande e grosso con una folta barba è venuto da me. Vuole venderlo. Mi puoi dire quanto vale?». Trasse il libro dalla borsa e lo mostrò al monaco.
Il piccolo monaco fissò il libro. Non avrebbe mai immaginato di rivedere così presto il suo tesoro. Ma non gridò: «È mio!», né puntò il dito contro il mercante dicendo: «Quell’uomo è un ladro!» No. Tutto quello che disse fu: «Questo è un libro di grandissimo valore. Vale almeno lo stipendio di un anno».
Il mercante si accomiatò e ritornò in città. Il giorno dopo il predone si presentò alla bottega e aveva l’aria più spietata che mai.
«Allora dimmi», brontolò. «Quanto vale il mio libro?»
«Parecchio! Almeno lo stipendio di un anno!»
L’umore del bandito cambiò. «Magnifico!», ghignò. «E come fai ad esserne sicuro?»
«È stato facile», spiegò il mercante. «C’è un piccolo monaco che vive nel deserto in una piccola capanna. Lui conosce tutto di queste cose. Gli ho portato il libro e gliel’ho mostrato».
L’umore del bandito cambiò del tutto.
«Un piccolo monaco? Nel deserto?», balbettò.
«Proprio!».
«E gli hai detto chi voleva vendere il libro?».
«Un uomo grande e grosso con una folta barba: questo gli ho detto».
«E il monaco non ha detto niente del libro? Niente di me?».
«Niente. Perché?».
«Così», mentì il predone. «Tanto per dire». Poi afferrò il libro e lasciò la bottega in fretta e furia. Salì sul suo cavallo e ritornò nel deserto.
Cavalcò e cavalcò fino alla piccola capanna. «Che cosa significa?», sbraitò entrando come una raffica di vento nella capanna. «Avresti potuto denunciarmi e mi avrebbero arrestato. Perché non hai detto niente?».
«Perché ti avevo già perdonato», rispose il monaco.
«Perdonato me?», gridò il predone. «Perdonato?». La sua voce si smorzò.
«Nessuno mi ha mai perdonato!», quasi sussurrò.
«Mi hanno sempre odiato, cacciato, inseguito, esiliato, condannato. Ma perdonato, mai!»
In quel momento, qualcosa mutò nel cuore del predone grande e grosso. Estrasse il libro dal suo sacco e lo porse al monaco: «È tuo!»
Il piccolo monaco sorrise e ringraziò il bandito. Poi lo invitò a fermarsi nella capanna per imparare qualcosa di più sul perdono e la pace del cuore. Non molto tempo dopo, il predone si fece monaco, un monaco grande e grosso con una folta barba, felice di dividere con gli altri il poco che aveva.
- Ferrero, Bruno(Autore)
Tratto dal libro:
“Tante storie per parlare di Dio” di Bruno Ferrero
#20. Il boscaiolo
C’era una volta un boscaiolo che si presentò a lavorare in una segheria. Il salario era buono e le condizioni di lavoro ancora migliori, per cui il boscaiolo volle fare bella figura.
Il primo giorno si presentò al caporeparto, il quale gli diede un’ascia e gli assegnò una zona del bosco.
L’uomo, pieno di entusiasmo, andò nel bosco a fare legna. In una sola giornata abbatté diciotto alberi.
«Complimenti» gli disse il caporeparto, «Vai avanti così».
Incitato da quelle parole, il boscaiolo decise di migliorare il proprio rendimento il giorno dopo. Così quella sera andò a letto presto.
La mattina dopo si alzò prima degli altri e andò nel bosco. Nonostante l’impegno, non riuscì ad abbattere più di quindici alberi.
«Devo essere stanco» pensò. E decise di andare a dormire al tramonto.
All’alba si alzò deciso a battere il record dei diciotto alberi. Invece quel giorno non riuscì ad abbatterne neppure la metà.
Il giorno dopo furono sette, poi cinque, e l’ultimo giorno passò l’intero pomeriggio tentando di segare il suo secondo albero.
Preoccupato per quello che avrebbe pensato il caporeparto, il boscaiolo andò a raccontargli quello che era successo, e giurava e spergiurava che si stava sforzando ai limiti dello sfinimento.
Il caporeparto gli chiese «Quando è stata l’ultima volta che hai affilato la tua ascia?».
«Affilare? Non ho avuto il tempo di affilarla: ero troppo occupato ad abbattere alberi».
- Bucay, Jorge(Autore)
Tratto dal libro:
“Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay
#21. Nessuno può cambiare il destino
Un grande guerriero giapponese che si chiamava Nobunaga decise di attaccare il nemico sebbene il suo esercito fosse numericamente soltanto un decimo di quello avversario. Lui sapeva che avrebbe vinto, ma i suoi soldati erano dubbiosi.
Durante la marcia si fermò a un tempio shintoista e disse ai suoi uomini: «Dopo aver visitato il tempio butterò una moneta. Se viene testa vinceremo, se viene croce perderemo. Siamo nelle mani del destino».
Nobunaga entrò nel tempio e pregò in silenzio. Uscì e gettò una moneta. Venne testa. I suoi soldati erano così impazienti di battersi che vinsero la battaglia senza difficoltà.
«Nessuno può cambiare il destino» disse a Nobunaga il suo aiutante dopo la battaglia.
«No davvero» disse Nobunaga, mostrandogli una moneta che aveva testa su tutt’e due le facce.
Tratto dal libro:
“101 storie zen” a cura di di N. Senzaki e A. Motti
#22. I fiori che non desideravano essere alberi
Si racconta che una sera un re che amava le piante, al ritorno da un lungo viaggio, decise di fare una passeggiata in giardino.
Si ricordava di aver dato istruzioni precise ai giardinieri, tuttavia, scoprì con tristezza che i suoi alberi e arbusti, parecchi dei quali aveva piantato egli stesso dopo molto lavoro, stavano morendo.
Angosciato, domandò loro cosa stava succedendo.
La Quercia gli disse che stava morendo perché non poteva essere così alta come il Pino. Il Pino in agonia si lamentava di non dare uva come la Vite. Sotto la pergola, la Vite moriva di rabbia perché non poteva fiorire come la Rosa; mentre la Rosa rimpiangeva di non essere forte come la Quercia.
Anche al re venne voglia di piangere.
Guardando verso l’angolo più remoto del giardino, vide che stavano crescendo moltissimi fiori, di tutti i colori e traboccanti di salute ed energia.
Il re si avvicinò alle Fresie che fiorivano più fresche che mai.
Domandò: «Com’è che crescete così floride lontane dalla fonte e probabilmente dimenticate dalla cura dei miei giardinieri?».
I fiori risposero: «Noi abbiamo sempre supposto che quando ci avete piantate volevate che fossimo Fresie. Se aveste voluto una Quercia o una Rosa, avreste piantato una Rosa o una Quercia. In quel momento abbiamo capito che il nostro modo di ringraziarvi della vita era essere le migliori Fresie che potevamo… E così abbiamo fatto».
- Bucay, Jorge(Autore)
Tratto dal libro:
“Le tre domande della felicità” di Jorge Bucay
#23. La volpe addomesticata
In quel momento apparve la volpe.
«Buon giorno», disse la volpe.
«Buon giorno», rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno.
«Sono qui», disse la voce, «sotto al melo…»
«Chi sei?» domandò il piccolo principe, «sei molto carino…»
«Sono una volpe», disse la volpe.
«Vieni a giocare con me», le propose il piccolo principe, sono così triste…»
«Non posso giocare con te», disse la volpe, «non sono addomestica».
«Ah! scusa», fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Non sei di queste parti, tu», disse la volpe, «che cosa cerchi?»
«Cerco gli uomini», disse il piccolo principe.
«Che cosa vuol dire addomesticare?»
«Gli uomini» disse la volpe, «hanno dei fucili e cacciano. È molto noioso! Allevano anche delle galline. È il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?»
«No», disse il piccolo principe. «Cerco degli amici. Che cosa vuol dire “addomesticare?»
«È una cosa da molto dimenticata. Vuol dire “creare dei legami”… »
«Creare dei legami?»
«Certo», disse la volpe. «Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me.
Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo».
«Comincio a capire» disse il piccolo principe. «C’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato…»
«È possibile”, disse la volpe. «Capita di tutto sulla Terra…»
«Oh! non è sulla Terra», disse il piccolo principe.
La volpe sembrò perplessa:
«Su un altro pianeta?»
«Si».
«Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?»
«No».
«Questo mi interessa. E delle galline?»
«No».
«Non c’è niente di perfetto», sospirò la volpe. Ma la volpe ritornò alla sua idea:
«La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò.
Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica.
E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro.
Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…»
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
«Per favore… addomesticami», disse.
«Volentieri», disse il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose».
«Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!»
«Che cosa bisogna fare?» domandò il piccolo principe.
«Bisogna essere molto pazienti», rispose la volpe. «In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…»
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
«Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora», disse la volpe.
«Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti».
«Che cos’è un rito?» disse il piccolo principe.
«Anche questa è una cosa da tempo dimenticata», disse la volpe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori.
Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza».
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
«Ah!” disse la volpe, «… piangerò».
«La colpa è tua», disse il piccolo principe, «io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…»
«È vero», disse la volpe.
«Ma piangerai!» disse il piccolo principe.
«È certo», disse la volpe.
«Ma allora che ci guadagni?»
«Ci guadagno», disse la volpe, «il colore del grano».
Poi soggiunse:
«Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto».
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
«Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente», disse. «Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno.
Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo».
E le rose erano a disagio.
«Voi siete belle, ma siete vuote», disse ancora. «Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho messa sotto la campana di vetro.
Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi (salvo i due o tre per le farfalle). Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa».
E ritornò dalla volpe.
«Addio», disse.
«Addio», disse la volpe. «Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».
«L’essenziale è invisibile agli occhi», ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
«È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante».
«È il tempo che ho perduto per la mia rosa…» sussurrò il piccolo principe per ricordarselo.
«Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa…»
«Io sono responsabile della mia rosa…» ripeté il piccolo principe per ricordarselo.
Tratto da libro:
“Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupery
#24. Ostacoli
Sto camminando lungo un sentiero. Lascio che siano i miei piedi a guidarmi.
I miei occhi si posano sugli alberi, sugli uccelli, sui sassi. All’orizzonte vedo la sagoma di una città. Aguzzo la vista per distinguerla bene. Sento che quella città mi attrae. Non so come, ma mi rendo conto che in quel posto potrei trovare tutto ciò che desidero.
Tutte le mie mete, i miei obiettivi e i miei successi, ciò che desidererei essere più di tutto, ciò a cui aspiro, o che provo a fare, ciò per cui lavoro, ciò a cui ho sempre ambito, ciò che rappresenterebbe il mio successo più grande.
Mi immagino che tutte queste cose si trovino in quella città. Senza esitare, decido di andarci. Poco dopo, il sentiero comincia a salire, mi sento un po’ stanco, ma non importa.
Vado avanti. Scorgo un’ombra nera lungo il cammino. Mentre mi avvicino, mi accorgo che un enorme fossato mi impedisce di passare. Ho paura… Esito.
Mi fa rabbia il fatto che la mia meta non sia così facile da raggiungere. Ad ogni modo, decido di scavalcare il fossato. Muovo qualche passo indietro, prendo la rincorsa e salto… Riesco ad oltrepassarlo. Mi riposo un po’ e poi riprendo a camminare.
Qualche metro più in là c’è un altro fossato. Prendo di nuovo la rincorsa e scavalco anche quello. Corro in direzione della città, il cammino sembra sgombro. Vengo sorpreso da un precipizio che blocca il mio tragitto. Mi fermo. È impossibile scavalcarlo.
Vedo che lì nei pressi ci sono assi di legno, chiodi e attrezzi. Mi rendo conto che sono lì per costruire un ponte. Non sono mai stato abile manualmente, quindi inizio a pensare che sia meglio rinunciare. Ma poi osservo la mia meta… E allora resisto.
Inizio a costruire il ponte. Passano ore, o forse sono giorni, o forse mesi. Il ponte è fatto. Fremente, lo attraverso. E quando giungo dall’altra parte… Vedo un muro. Un gigantesco muro freddo ed umido circonda la città dei miei sogni.
Mi sento abbattuto… Cerco un modo per superarlo, ma non c’è verso. Devo scalarlo. La città è così prossima… Non lascerò che quel muro mi impedisca di passare.
Mi accingo ad arrampicarmi. Riposo per un po’ e prendo una boccata d’aria. Tutto ad un tratto vedo sul sentiero un bambino che mi guarda come se mi conoscesse. Mi sorride con complicità.
Mi ricorda me stesso… Quando ero bambino.
Forse proprio per questo, mi decido ad esprimere a voce alta il mio cruccio: «Perché ci sono così tanti ostacoli tra me e il mio obiettivo?»
Il bambino si stringe nelle spalle e mi risponde: «Perché lo chiedi a me? Gli ostacoli non c’erano prima che arrivassi tu… Sei stato tu a portarli».
Tratto dal libro:
“Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay
#25. Come sono gli abitanti di questa città?
C’era una volta un vecchio saggio seduto ai bordi di un’oasi all’entrata di una città del Medio Oriente. Un giovane si avvicinò e gli domandò: «Come sono gli abitanti di questa città?»
L’uomo rispose domandando: «Come sono gli abitanti della città da cui provieni?» «Egoisti e cattivi» disse il giovane. «Per questo me ne sono andato». «Anche gli abitanti di questa città sono così» disse l’uomo e il giovane se ne andò.
Poco dopo arrivò un altro giovane e gli pose la stessa domanda: «Come sono gli abitanti di questa città?»
L’uomo domandò: «Come sono gli abitanti della città da cui arrivi?» «Buoni, generosi, ospitali e onesti» rispose il giovane. «Per questo avevo tanti amici e ho fatto fatica a partire».
«Anche gli abitanti di qui sono così» rispose l’uomo.
Un altro uomo della città aveva sentito tutta la conversazione e chiese: «Come puoi dare due risposte completamente differenti alla stessa domanda?» «Caro amico, ogni persona porta un proprio universo nel cuore che gli fa percepire la realtà.
Chi non trovava niente di buono in passato, non troverà niente di buono neanche qui; al contrario chi vedeva il bello in ogni persona, aveva degli amici ed era buono in passato, anche qui troverà degli amici e sarà buono.
Le persone vedono il mondo attraverso la luce del loro cuore: se in noi c’è una luce buona tutto sarà bello e buono, e si saprà amare tutti».
- Zanetti, Antonio(Autore)
Tratto dal libro:
“Le più belle storie Zen” di Antonio Zanetti
Articoli consigliati
- 10 Racconti brevi che contengono lezioni preziose
- 10 Lezioni di vita contenute ne L’Alchimista di Paulo Coelho
- 10 Migliori libri di Storytelling | Per Comunicare attraverso racconti
- Storie che guariscono | Lo Storytelling di Milton H. Erickson
Letture consigliate
- La mia voce ti accompagnerà di Milton Erickson. Elemento inscindibile dalla pratica terapeutica di Erickson era il suo impiego dei racconti brevi. Strumenti raffinatissimi per aprire la mente dell’interlocutore a intuizioni nuove che conducevano a un sorprendente esito terapeutico.
- Metafore terapeutiche di David Gordon. I terapeuti usano le metafore, sotto forma di fiabe, parabole o racconti brevi, per aiutare i loro clienti a effettuare i cambiamenti desiderati. Questo libro è considerato uno tra i migliori.
- Lascia che ti racconti di Jorge Bucay. Ogni racconto si trasforma in un piccolo, prezioso strumento per guardare sotto una luce diversa i problemi che incontriamo ogni giorno per aiutarci a cercare dentro di noi e riscoprire la gioia profonda del vivere.