Nell’agosto del 1971, il professore di psicologia Philip Zimbardo condusse un esperimento nel seminterrato della Jordan Hall della Stanford University per scoprire come si sarebbero comportati degli individui messi in una posizione di autorità con potere illimitato.
Con “L’esperimento della prigione di Stanford”, servendosi di 24 studenti universitari che interpretavano i ruoli di finti prigionieri e finte guardie, Zimbardo avrebbe indagato le dinamiche di potere e le relazioni in un contesto carcerario per capire se il potere rende le persone brutali e sadiche o se quelle qualità sono intrinseche nella natura umana.
Questo esperimento si ispira alla nota teoria del sociologo francese Gustave Le Bon, secondo la quale gli individui di un gruppo coeso costituente una folla tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità e subiscono una trasformazione radicale che lascia affiorare la comparsa di impulsi antisociali.
Il lavoro di Zimbardo e colleghi si propose di confutare l’orientamento di pensiero che attribuisce i comportamenti degradati e violenti osservabili all’interno delle prigioni a disfunzioni della personalità, innate o apprese, dei carcerati e delle guardie; egli cercò di dimostrare come tali condotte fossero invece imputabili alle specifiche caratteristiche della situazione.
15$ Al giorno per partecipare a uno studio sulla vita carceraria
70 Studenti presentarono domanda per prendere parte all’esperimento di Philip Zimbardo.
Tutte le persone furono intervistate e sottoposte a test di personalità. Dopo aver eliminato chiunque manifestasse potenziali problemi psicologici, disturbi della personalità, disabilità fisiche o qualsiasi tipo di problematica legata al controllo dell’aggressività o all’uso di sostanze, 24 studenti universitari bianchi e maschi del ceto medio furono scelti come partecipanti.
Nessuno tra gli studenti sapeva esattamente a cosa si era iscritto.
Con il lancio di una moneta, Zimbardo e il suo gruppo di ricerca assegnò casualmente i ruoli di “prigionieri” e “guardie”, l’esperimento iniziò di domenica mattina, il 17 agosto 1971.
Quelli a cui era toccato il ruolo dei prigionieri furono arrestati e schedati in una vera stazione di polizia a Palo Alto, poi bendati furono trasferiti nel seminterrato del dipartimento di psicologia della Stanford University, trasformato in una finta prigione.
C’erano 12 prigionieri e 12 guardie, 9 attivi e 3 supplenti in ogni categoria.
L’ambiente carcerario
La prigione necessaria all’esecuzione dell’esperimento fu ricavata dal seminterrato del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford. Le celle furono realizzate sostituendo le normali porte dei laboratori con porte speciali fatte di sbarre d’acciaio.
Ogni cella era dotata di un citofono dentro il quale venne installato un microfono-spia per controllare i discorsi dei prigionieri. Telecamere collegate a videoregistratori che permettevano di controllare ogni attività vennero collocate in punti strategici della struttura. Nella prigione non c’erano finestre né orologi che aiutassero a rendersi conto del trascorrere del tempo.
L’unico luogo accessibile ai prigionieri era un corridoio, dov’era permesso camminare, mangiare e fare ginnastica. Una piccola stanza buia fungeva da cella di segregazione.
Per rendere l’esperienza il più reale possibile dal punto di vista psicologico, dopo aver rilasciato le impronte digitali i prigionieri furono spogliati, perquisiti e privati degli effetti personali, irrorati con uno spray disinfestante e costretti a indossare un ampio camice riportante un numero di identificazione, dei sandali di gomma e un copricapo ricavato da una calza di nylon.
Per accresce il senso di disumanizzazione, erano chiamati soltanto con il numero loro assegnato e ognuno indossava una cavigliera di metallo a cui era fissata ua catena, per ricordare la mancanza di libertà.
Le guardie indossavano vere uniformi della guardia carceraria con occhiali da sole per impedire il contatto visivo con i prigionieri, tenendo bene in vista chiavi, fischietti, manette e manganelli. Erano in servizio 24 ore al giorno con 3 guardie per turni di 8 ore e avevano il controllo totale sui carcerati, con il permesso di impiegare qualsiasi metodo ritenessero opportuno per mantenere l’ordine. Le guardie fuori servizio erano reperibili in caso di problemi.
Sebbene la violenza fisica non fosse permessa, le guardie potevano, molestare i prigionieri, trattenere il cibo o togliere privilegi a loro discrezione.
Con stupore dei ricercatori, l’ambiente divenne ben presto minaccioso per i partecipanti. Molte guardie mostrarono una marcata tendenza ad assumere atteggiamenti crudeli verso i prigionieri, e questi ultimi a rimanere passivi.
In principio i prigionieri protestarono per l’invasione della privacy subìta, la costante sorveglianza e l’atmosfera opprimente nella quale erano costretti a vivere. Poi alcuni iniziarono a ribellarsi con la forza, mentre altri divennero eccessivamente obbedienti per cercare di diventare “buoni prigionieri” e si schierarono con le guardie.
Dopo un tentativo di rivolta da parte dei prigionieri, ogni guardia era diventata violenta e autoritaria. Ai carcerati era impedito di mangiare o dormire, erano incappucciati, incatenati e costretti a pulire il bugliolo con le mani. Se si annoiavano, le guardie usavano i prigionieri come giocattoli, costringendoli a ruoli umilianti.
I ricercatori dovettero ricordare più volte ai carcerieri di astenersi da azioni violente, che aumentavano nelle ore notturne, quando le guardie erano convinte di non essere osservate.
Nessuna delle guardie saltò mai il turno di lavoro e alcune scelsero di trattenersi volontariamente in servizio oltre l’orario stabilito, senza richiedere straordinari.
Un prigioniero fu rilasciato dopo 36 ore per pianto irrefrenabile
Mentre le guardie aumentavano la loro aggressività, i prigionieri diventavano sempre più stressati. Dopo circa 36 ore di prigionia e maltrattamenti da parte delle guardie, uno studente, il detenuto n. 8612, fu rilasciato perché manifestava disturbi depressivi gravi, pensiero disorganizzato, pianto irrefrenabile e attacchi d’ira.
Già il secondo giorno cinque soggetti vennero rispediti a casa perché accusavano sintomi di depressione, turbe emotive e persino eruzioni cutanee di natura psicosomatica. Quando i detenuti vennero visitati da un autentico sacerdote, alcuni gli chiesero di metterli in contatto con un avvocato.
L’esperimento di Zimbardo, anziché 2 settimane durò solo 6 giorni
Il sesto giorno dell’esperimento, Christina Maslach, una dottoranda, fu chiamata per intervistare i detenuti. Rimase inorridita da ciò che vide e chiese a Zimbardo di porre fine all’esperimento.
Zimbardo, rendendosi conto che la dottoranda aveva ragione, decise di terminare lo studio. In seguito ha dichiarato che anch’egli, una volta entrato nella parte, ragionava come il direttore della prigione e non più come lo psicologo della ricerca.
Zimbardo ha identificato i tre tipologie di guardie:
“Prima c’erano guardie dure ma giuste che seguivano le regole della prigione, in secondo luogo c’erano” bravi ragazzi “che facevano piccoli favori per i prigionieri e non li punivano mai, e infine, circa un terzo delle guardie era ostile, arbitrario e inventivo nelle loro forme di umiliazione dei detenuti. Queste guardie sembravano godere appieno del potere che esercitavano…”
L’esperimento ha dimostrato che è possibile indurre delle brave persone a comportarsi in modo malvagio immergendole in “situazioni totali” con un’ideologia che apparentemente le legittima con regole e ruoli approvati.
Come spiega lo stesso Zimbardo, le implicazioni sono vaste:
“Qualsiasi atto che un qualsiasi essere umano abbia mai compiuto, per quanto orribile, potrebbe compierlo ognuno di noi, se sottoposto alle giuste o sbagliate pressioni situazionali”.
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Ultima revisione
*Foto (modificate) tratte dal film The Stanford Prison Experiment
Bibliografia:
- “L’effetto Lucifero” di Philip Zimbardo
- “Il libro della psicologia” Gribaudo
- “Gli esperimenti nelle scienze sociali” di Marina Rago
- Wikipedia
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