Il Quoziente Intellettivo (QI) è la valutazione delle abilità verbali e aritmetiche di un individuo. A partire dagli anni ‘20 e fino a tutti gli anni ‘80 del XX secolo, gli scienziati cominciarono a pensare che il potenziale umano potesse essere misurato sulla base del quoziente intellettivo.
I governi investivano soldi nelle attività linguistiche e matematiche delle scuole pubbliche, mentre sospendevano i programmi delle discipline artistiche e musicali. I dipartimenti delle Risorse Umane delle aziende creavano test di valutazione basati sul QI e assumevano persone utilizzando per tutti gli stessi criteri che contemplavano esclusivamente l’intelligenza presunta.
Il metodo era totalmente errato. Gli studi dimostrano che il QI e le abilità tecniche insieme sono in grado di prevedere solo il 20-25% del successo professionale. Significa che il 75% dei nostri risultati lavorativi non ha nulla a che vedere con l’intelligenza o la formazione.
Ciò costituisce un problema enorme, fa notare l’esperto di potenziale umano Shawn Achor (autore del best seller Il Vantaggio delle Felicità) in quanto in un periodo di crisi economica acuta le aziende spendono la maggior parte del budget che hanno a disposizione nel tentativo di aumentare l’intelligenza e le abilità tecniche dei collaboratori.
Da un punto di vista strettamente scientifico, sostiene Shawn Achor, questo denaro è speso irresponsabilmente.
Se non con il QI, come possiamo prevedere il successo professionale?
Se il quoziente intellettivo non è un buon predittore, sarebbe forse meglio utilizzare il SAT?
Il SAT (Scholastic Assessment Test) è un test attitudinale richiesto per l’ammissione alle università statunitensi e composto da tre parti distinte (lettura critica, matematica e scrittura creativa); il suo scopo è valutare le abilità di pensiero critico e di problem solving di uno studente apprese nella scuola secondaria.
Il SAT non è un buon predittore in quanto i risultati del SAT sono legati alla media dei voti di una matricola universitaria solo nell’8-15% dei casi. Ciò significa che per circa l’88,5% degli studenti i punteggi del SAT non sono indicativi nella previsione del successo accademico.
L’unità di misura successiva che le aziende utilizzarono per provare a prevedere le performance di potenziali collaboratori era costituita dai voti. I voti ottenuti alle scuole superiori sono due volte più predittivi del successo accademico rispetto ai punteggi del SAT.
Quindi i voti riescono a prevedere il successo futuro anche in ambito lavorativo?
Thomas J. Stanley, dottore di ricerca e autore del libro La Mente Milionaria, non è d’accordo. Dopo 10 anni di studi e ricerche, Stanley non trovò alcuna correlazione tra i voti scolastici e il successo professionale: il lancio di una moneta sarebbe altrettanto predittivo dell’eccellenza.
Questo spiega il paradosso spesso citato secondo cui molti studenti con la media del 6 diventano direttori d’azienda e tanti altri che hanno tutti 10 finiscono a lavorare per loro. Da qui si arrivò agli studi di altri due ricercatori, Howard Gardner e Peter Salovey.
Intelligenza Emotiva
Howard Gardner
, psicologo statunitense e professore presso la Harverd University, fu il primo a sostenere che la capacità di comprendere i propri sentimenti così come quelli degli altri è più importante del QI.
Gardner ha esposto la sua teoria secondo cui non esiste una sola intelligenza, ma ne esistono tantissime, così tante che sarebbe impossibile catalogarle tutte, per questo motivo egli riuscì a raggruppare le intelligenze in 9 grandi categorie, dando vita alla “teoria delle intelligenze multiple”. Ne ho parlato nel post: Le 9 Intelligenze come strumento per il Problem Solving
Nel 1990 due psicologi, Peter Salovey di Yale e John D. Mayer dell’Università del New Hampshire, pubblicarono un importante articolo in cui dichiaravano che il valore predittivo del QI è estremamente basso, mentre la capacità di comprendere i sentimenti è un predittore del potenziale umano di gran lunga più efficace.
Tale abilità fu ribattezzata Intelligenza Emotiva.
L’intelligenza emotiva fa riferimento alla capacità di controllare le proprie emozioni e nel corso degli ultimi due decenni si pensò che fosse la chiave del successo nello stressante e instabile mondo del business.
Con il successo del best-seller internazionale di Daniel Goleman Intelligenza Emotiva, che contribuì a diffondere le ricerche di Salovey, le aziende di tutto il mondo iniziarono a misurare il quoziente di intelligenza emotiva (QIE) di collaboratori e dipendenti.
Goleman offre la sua definizione di Intelligenza Emotiva come un “insieme di abilità” piuttosto che un tratto di personalità.
Egli mette a fuoco l’importanza delle componenti emotive anche nelle funzioni razionali del pensiero e spiega perché il successo o il fallimento nei settori decisivi dell’esistenza sono determinati da una complessa miscela in cui hanno un ruolo predominante fattori come l’autocontrollo, la perseveranza e l’empatia
Si aprì quindi un nuovo dibattito sia in ambito accademico che professionale: cos’è più importante, il QI o il QIE?
Intelligenza Sociale
Poco dopo, Howard Gardner formulò un’ulteriore categoria dell’intelligenza, che faceva riferimento all’abilità di capire gli altri e di relazionarsi ad essi. La chiamò “Intelligenza Sociale” e di nuovo Daniel Goleman la introdusse nel mondo del business attraverso il best-seller Intelligenza Sociale.
Insomma, Daniel Goleman fa i soldi scrivendo best seller con le scoperte di altri 🙂 .
Da allora, aziende e ricercatori continuano a voler per forza trovare una risposta a questa domanda: cos’è più importante, il QI, l’intelligenza emotiva o l’intelligenza sociale?
Per Shawn Achor (L’esperto di potenziale umano) si tratta di una discussione abbastanza assurda. È come chiedersi se nello sport è più importante l’attacco o la difesa o se per un’azienda sono più importanti i collaboratori o i clienti.
Per raggiungere davvero il successo, secondo Achor, invece di pensare all’intelligenza come elemento isolato, dovremmo concentrarci su come combinare tutti i diversi tipi di intelligenza. Una volta capito questo concetto fondamentale, tutto diventa più chiaro.
Tutte “le intelligenze” contano, ma conta ancora di più il modo in cui il nostro cervello le mette in relazione. Pertanto, la domanda migliore Non è “Quale delle tre intelligenze è più importante?”, bensì “Come possiamo imparare a sfruttarle e ad amplificarle tutte e tre?”.
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Bibliografia:
- Tratto (con modifiche e integrazioni) dal libro: “Prima della Felicità” di Shawn Achor
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