L’abito non fa il monaco è un noto proverbio che invita a diffidare delle apparenze, non di rado ingannevoli, nel giudicare una persona, evitando quindi di esprimere valutazioni precipitose e superficiali sul conto di qualcuno.
Molti esperimenti psicologici invece dimostrano che l’abito fa il monaco e anche il laico. Richard Wiseman, il famoso professore di psicologia presso la University of Hertfordshire nel Regno Unito, ha raccolto i dati di diverse ricerche nel suo libro Cambio vita in 6 comode lezioni .
Di seguito la sintesi di alcune di queste ricerche volte a dimostrare che l’abito fa il monaco, tratto dal testo di Wiseman.
Esperimento sul razzismo di John Griffin
John Griffin
nato in Texas nel 1920, andò in Europa in giovane età e seguì un tirocinio da musicologo, specializzandosi in canto gregoriano.
Quando scoppiò la Seconda guerra mondiale, collaborò con la Resistenza francese e contribuì a mettere al sicuro gli ebrei austriaci facendoli uscire dal Paese. Dopo la fine del conflitto tornò in America, diventò giornalista investigativo e decise di dare rilievo alla tragica situazione degli afroamericani che vivevano negli Stati meridionali.
Anziché limitarsi a scrivere del razzismo, tuttavia, eseguì uno straordinario esperimento per provare quella triste esperienza in prima persona.
Avvalendosi della collaborazione di un bravo dermatologo, usò un misto di pigmenti artificiali, farmaci e lampade abbronzanti per scurirsi la pelle. Una volta completata la trasformazione, si rasò i capelli, in modo da poter passare per afroamericano almeno agli occhi di un osservatore distratto.
Quindi girò diversi Stati meridionali viaggiando in autobus e facendo l’autostop ed ebbe un assaggio dell’odio e delle discriminazioni che i veri afroamericani subivano ogni giorno.
- Griffin, John Howard(Autore)
All’inizio del suo famoso libro su questo progetto, Griffin dice di essersi guardato allo specchio solo dopo aver portato a termine la metamorfosi e si sentì un’altra persona. Per tutta la vita si era guardato allo specchio e aveva visto un uomo di razza caucasica.
Partendo dal presupposto che il colore della pelle fosse una parte importante della propria identità, probabilmente aveva dato per scontato di possedere il passato e i tratti associati con quell’aspetto esteriore.
Dopo la trasformazione si vide simile a un afroamericano e usò inconsciamente questa immagine per costruirsi un nuovo senso di identità. Nel giro di pochi istanti sentì il vecchio io che si sgretolava e una nuova personalità che prendeva forma.
È improbabile che qualcuno segua il suo esempio e cambi colore di pelle. Tuttavia, lo stesso principio si può applicare a qualcosa che è molto più semplice da modificare, ossia l’abbigliamento.
Giudichiamo spesso gli altri in base a come sono vestiti
In un esperimento Nicolas Guéguen dell’Université de Bretagne Sud vestì alcuni uomini con abiti civili e altri con un’uniforme da vigile del fuoco e chiese loro di avvicinare più di duecento donne selezionate a caso sulla strada.
Ogni volta che l’uomo attirava l’attenzione della sconosciuta, recitava sempre lo stesso copione preconfezionato: Buongiorno, mi chiamo Antoine. Volevo solo dirle che la trovo molto carina. Oggi pomeriggio devo andare al lavoro, ma mi chiedo se sarebbe disposta a darmi il suo numero di telefono. La chiamo più tardi e possiamo bere qualcosa insieme.
Guéguen analizzò attentamente la percentuale delle donne che non avevano esitato a dare il proprio numero di telefono e notò che l’uniforme aveva avuto un effetto sorprendente. Quando gli uomini erano in borghese, solo l’8 per cento delle signore aveva aderito alla richiesta. Invece, quando gli stessi uomini erano vestiti da vigili del fuoco, la percentuale dei “sì” era salita al 22 per cento.
In uno studio analogo, John Marshall Townsend della Syracuse University fece indossare ad alcuni attori prima una divisa del Burger King e poi un completo elegante. Quindi mostrò le loro fotografie ad alcune donne, cui domandò se sarebbero state disposte a fare sesso con gli sconosciuti ritratti nelle immagini.
A dimostrazione del fatto che l’abito fa il monaco, le interpellate inclini ad andare a letto con gli uomini che sfoggiavano il completo furono più numerose di quelle che si sarebbero lasciate sedurre dai tizi con la divisa del Burger King.
Altre ricerche dimostrano che anche i più lievi cambiamenti possono avere un enorme effetto. In un altro studio, uno psicologo camuffato da ricercatore di mercato avvicinò varie persone e chiese loro se avrebbero accettato di partecipare a un sondaggio. Nella metà dei casi indossò la cravatta, nell’altra metà no.
Questa piccola differenza ebbe conseguenze incredibili: oltre il 90 per cento dei passanti aderì all’iniziativa quando il ricercatore indossava la cravatta, contro un modesto 30 per cento quando ne era privo.
Il colore degli abiti può modificare il comportamento
Mark Frank
della Cornell University intraprese una serie di studi curiosi. Il ricercatore sapeva che le persone tendono ad associare gli indumenti neri con un atteggiamento autoritario e aggressivo e si domandò se il semplice fatto di essere vestiti di quel colore potesse modificare il loro comportamento.
Consultò i registri della National Football League, facendo un confronto tra i dati relativi alle squadre con divise nere e quelli riguardanti le altre. Individuò le cinque formazioni che portavano casacche nere e cominciò a osservarne il comportamento in campo.
Nel football americano, i falli si puniscono costringendo la squadra indisciplinata ad arretrare di cinque, dieci o quindici iarde. Frank calcolò il numero di iarde medio comminato a ogni formazione durante ciascuna partita e rilevò uno schema interessante: le squadre vestite di nero avevano subito molte più punizioni delle altre, il che indicava che tendevano ad avere un comportamento particolarmente aggressivo.
Frank passò ai registri della National Hockey League e ancora una volta confrontò le formazioni dalle uniformi nere con le altre. Nell’hockey, i giocatori fallosi restano fuori dal campo per due, cinque o dieci minuti, a seconda della gravità dell’infrazione. Frank notò che quelli vestiti di nero avevano passato molto più tempo in panchina.
Frank non soddisfatto fece un esperimento. Riunì alcuni partecipanti volenterosi e li divise casualmente in due gruppi, uno vestito di nero e l’altro di bianco. Poi annunciò che avrebbero dovuto formare delle piccole squadre e cimentarsi in vari giochi.
Quindi gli sperimentatori mostrarono loro una lista di attività e chiesero loro quali preferissero. All’insaputa dei volontari, i giochi presentavano intenzionalmente diversi gradi di aggressività.
Alcuni, come il “duello con il fucile a dardi”, erano molto violenti, mentre altri, come la “gara di golf semplificato”, erano assai più passivi. I soggetti che si erano vestiti di nero scelsero attività molto più aggressive rispetto a quelli vestiti di bianco.
Il modo in cui vi vestite influisce direttamente su chi credete di essere
Secondo altre ricerche, questo fenomeno va ben al di là del fattore cromatico. In un altro studio intrapreso da Robert Johnson dell’Arkansas State University, un gruppo di partecipanti fu informato che avrebbe avuto l’opportunità di infliggere scosse elettriche a un’altra persona.
Lo sperimentatore spiegò che ciascun volontario sarebbe stato fotografato prima del test, ma specificò che nell’immagine i vestiti avrebbero dovuto essere coperti. Come si sarebbe potuta garantire questa forma di anonimato? L’intraprendente ricercatore aveva portato due tipi di costumi.
Metà dei soggetti fu invitata a indossare una tunica simile a quella del Ku Klux Klan. Gli altri, invece, dovettero infilarsi delle divise da infermiere.
Nella fase successiva, lo sperimentatore disse che nella stanza attigua c’era una persona impegnata a memorizzare una lista di parole e pregò i candidati di somministrarle una scossa elettrica ogni volta che avesse commesso un errore.
In realtà, la povera vittima era un attore e il macchinario era fasullo. A ogni sbaglio, il volontario poteva scegliere se aumentare o diminuire l’intensità della presunta scarica. I soggetti con la tunica optarono per scosse molto più violente di quelli vestiti da infermieri, proprio come previsto dall’esperimento.
Gli stessi effetti sono stati riscontrati al di fuori del laboratorio. Nel 1969 la polizia di Menlo Park, in California, provò a migliorare i rapporti con la comunità sbarazzandosi delle uniformi blu stile paramilitare e adottando un abbigliamento più informale.
Gli agenti ricevettero l’ordine di indossare blazer sportivi verdi, pantaloni neri, camicie bianche e cravatte nere e anche di nascondere l’arma di ordinanza sotto la giacca. La notizia non tardò a diffondersi e oltre quattrocento dipartimenti di polizia americani si adeguarono al nuovo look.
Diciotto mesi dopo, i ricercatori sottoposero i poliziotti a vari test e i risultati rivelarono che, una volta privati dei simboli dell’autorità, costoro si erano calati gradualmente nel nuovo ruolo di “pubblici funzionari”.
In linea con la nuova identità, avevano assunto un comportamento meno autoritario rispetto ai colleghi con la divisa classica. Nello stesso periodo, i ferimenti di civili da parte della polizia erano diminuiti del 50 per cento.
Il messaggio che vuole far passare Wiseman, con i dati delle ricerche che riporta, è che il modo in cui ci vestiamo influisce direttamente su chi crediamo di essere. L’abito fa il monaco e anche il laico, secondo il professore di psicologia: tu cosa ne pensi?
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RIF. Tratto dal libro “Cambio la vita in 6 comode lezioni”
di Richard Wiseman
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