I 38 stratagemmi di Schopenhauer (pubblicati postumi) rappresentano un utile strumento per trasformare qualsiasi disputa in una vittoria.
Non importa se l’opinione sia giusta o sbagliata, vera o falsa: esistono modi precisi per ribaltare le discussioni e superare dialetticamente chiunque.
Sono precetti di immediata applicabilità, quasi i princìpi di una scienza, e spaziano dalla nobile disamina delle parole dell’avversario fino ad astuzie retoriche in grado di sgretolare le certezze di chi ci fronteggia.
- L'arte di ottenere ragione (I MiniMammut, Volume 248)
- LIBRO ABIS
- Schopenhauer, Arthur(Autore)
Sfruttare i pregiudizi altrui, generalizzare e banalizzare, suscitare nell’avversario la confusione con domande inaspettate o l’ira con affermazioni provocatorie, proporre in tono denigratorio l’opposto della propria tesi al solo scopo di evidenziarne l’assurdità, fino a spingersi all’estremo dello sproloquio privo di senso o dell’offesa diretta, pur di ricacciare indietro l’oppositore.
38 Stratagemmi Schopenhauer
Di seguito i 38 stratagemmi di Shopenhauer tratti dal libro L’arte di ottenere ragione.
#1. Ampliamento
Condurre l’affermazione dell’avversario oltre i suoi limiti naturali, spiegarla nel modo più generico possibile, prenderla nel senso più ampio possibile ed esagerarla.
Contrarre invece la propria affermazione nel senso più ristretto possibile, entro limiti il più possibile angusti, poiché più generale diventa un’affermazione, a maggiori attacchi essa è esposta.
Il rimedio è l’esatta enunciazione del punto o dello stato della controversia.
#2. Omonimia
Utilizzare l’omonimia per estendere l’affermazione fatta a ciò che, eccetto la parola uguale, ha poco o nulla in comune con l’argomento in questione, confutarlo con luminosa evidenza, e far mostra così che si sia confutata l’affermazione.
#3. Generalizzazione
Prendere l’affermazione che, più precisamente, è stata formulata in modo relativo, come se sia formulata in senso generale; o concepirla almeno in un rapporto completamente diverso, e confutarla poi in questo senso.
#4. Premesse in ordine sparso
Quando si vuole trarre una conclusione, non la si lasci prevedere, ma si lascino ammettere, senza sembrarlo, le premesse singole e sparse nella conversazione, altrimenti l’avversario tenterà ogni sorta di vessazioni.
Oppure, quando non si è certi che l’avversario le ammetterà, si pongano allora le premesse di queste premesse, si facciano dei pro-sillogismi, ci si lasci ammettere alla rinfusa le premesse di molti di tali prosillogismi senza ordine.
Si nasconda quindi il proprio gioco, finché sia concesso tutto quello di cui si ha bisogno.
#5. Premesse false
Per dimostrare la propria tesi si possono anche adoperare premesse false, quando l’avversario non ammettesse le vere, o perché non riconosce la loro verità o perché vede che la tesi ne seguirebbe subito.
Si prendano allora tesi false in se stesse, ma vere ad hominem, e si argomenti dal modo di pensare dell’avversario ex concessis.
Il vero, infatti, può anche seguire da false premesse, quantunque mai il falso da vere. Appunto così si possono confutare
false tesi dell’avversario mediante altre false tesi, che egli però ritiene vere: si ha infatti a che fare con lui e si deve adoperare il suo modo di pensare.
Se ad esempio egli è seguace di qualche setta che noi non approviamo, possiamo allora adoperare contro di lui, come principia, le massime di questa setta.
#6. Dissimulazione di petitio principii
Si fa una dissimulata petitio principii, postulando ciò che si dovrebbe dimostrare,
1) sotto un altro nome, ad esempio invece di onore: buon nome; invece di verginità: virtù ecc.; ed anche concetti invertibili: animali a sangue rosso, al posto di vertebrati;
2) oppure, ciò che nel caso singolo è controverso si concede nel caso generale: ad esempio, si asserisce l’incertezza della medicina, postulando l’incertezza di ogni conoscenza umana;
3) quando, vice versa, due cose seguono l’una dall’altra, e si deve dimostrare la prima, si postula l’altra;
4) quando si deve dimostrare il caso generale, e si ammetta ogni caso singolo.
#7. Metodo socratico
Quando la disputa è condotta piuttosto rigidamente e formalmente, e si vuole farsi capire in modo molto chiaro, allora colui che ha posto l’affermazione e deve dimostrarla procede contro il proprio avversario interrogando, per concludere dalle sue stesse ammissioni la verità dell’affermazione.
Questo metodo erotematico (= interrogatorio) era particolarmente in uso presso gli antichi (si chiama anche socratico). Allo stesso si riferisce il presente stratagemma, liberamente rielaborato per intero da Aristotele, in “Liber de elenchis sophisticis” Libro delle confutazioni sofistiche.
- Aristotele(Autore)
Domandare molte cose tutte insieme e dettagliatamente, per nascondere ciò che si vuole sia ammesso. Esporre, al contrario, prontamente la propria argomentazione, muovendo da quanto è stato ammesso, poiché coloro che sono tardi a comprendere non possono seguire con precisione, e non notano eventuali errori o lacune nell’argomentazione.
#8. Provocare l’ira
Provocare l’ira dell’avversario, poiché in preda all’ira egli non è in grado di giudicare rettamente e di percepire il suo vantaggio. Lo si fa adirare, facendogli apertamente torto, vessandolo ed essendo in genere impudenti.
#9. Domande in ordine sparso
Non porre le domande in quell’ordine che esige la conclusione da trarne, ma spostandole dappertutto.
Egli non capisce allora dove si voglia parare, e non può mettere le mani avanti; e si possono anche utilizzare di volta in volta le sue risposte per conclusioni diverse, addirittura contrapposte, a seconda delle risposte.
Questo è affine allo Stratagemma 4, dovendo mascherare il proprio procedimento.
#10. Ritorsione delle negazioni
Quando ci si accorge che l’avversario nega intenzionalmente le domande, la cui risposta affermativa sarebbe utilizzabile per la nostra tesi, si deve allora chiedere il contrario della tesi da utilizzare, come se si volesse farlo approvare o dargli almeno da scegliere fra entrambe, in modo che egli non noti quale tesi si voglia approvata.
#11. Generalizzazione dell’inferenza
Se noi facciamo una induzione e l’avversario ci riconosce i singoli casi, mediante i quali essa deve essere formata, noi non dobbiamo domandargli se egli riconosca anche la verità generale che nasce da questi casi, ma dobbiamo introdurla più tardi come stabilita e ammessa.
Egli stesso crederà talvolta di averla ammessa, e così accadrà anche agli ascoltatori, poiché essi si ricordano delle molte domande circa i singoli casi, che poi devono avere certamente condotto allo scopo.
#12. Similitudini favorevoli
Se il discorso verte su un concetto generale privo di un nome proprio, ma che deve essere indicato in senso tropico con una similitudine, noi dobbiamo allora scegliere subito la similitudine in modo tale che sia favorevole alla nostra affermazione.
Così, ad esempio, in Spagna, i nomi con cui sono designati i due partiti politici, serviles e liberales, sono scelti da questi ultimi. Il nome di Protestanti è stato scelto da questi stessi, e anche il nome di Evangelici; ma il nome di Eretici è stato scelto dai Cattolici.
Ciò vale per i nomi delle cose, anche quando essi sono più appropriati: se, ad esempio, l’avversario ha proposto una qualche variazione, la si chiami allora innovazione, poiché questa parola è odiosa, e viceversa, quando siamo noi stessi a fare la proposta.
Nel primo caso, si chiami come contrario l’“ordine costituito”; nel secondo, il “filisteismo”. Ciò che, ad esempio,
qualcuno senza alcuna intenzione e imparziale chiamerebbe “culto” o “pubblica dottrina di fede”, uno che voglia parlare a favore di essi chiamerà “devozione”, “pietà”, e un avversario chiamerà “bigottismo”, “superstizione”.
In fondo, questa è una sottile petitio principii: ciò che si vuole all’inizio dimostrare lo si mette prima nella parola, nella denominazione, da cui esso poi ha origine mediante un semplice giudizio analitico.
Ciò che uno chiama “assicurarsi della sua persona”, “mettere al sicuro”, il suo avversario chiamerà “mettere in prigione”. Un oratore rivela spesso in anticipo la sua intenzione attraverso i nomi che egli dà alle cose. Uno dice “il clero”, l’altro “i preti”. Fra tutti gli stratagemmi, questo è usato molto frequentemente, istintivamente..
#13. Presentare l’opposto della propria tesi
Per far sì che egli ammetta una tesi, dobbiamo presentargli il suo opposto e lasciargli la scelta, ed esprimere questo opposto molto nettamente, in modo che, per non essere paradossale, egli debba accettare la nostra tesi, che per contro sembra molto probabile.
Ad esempio, egli deve ammettere che uno deve fare tutto ciò che gli dice suo padre; allora noi chiediamo: “Dobbiamo in ogni cosa essere disobbedienti o obbedienti ai genitori?”.
Oppure, se di qualche cosa è detto “spesso”, domandiamo allora se con “spesso” sono intesi pochi casi o molti: egli dirà “molti”. È come quando si mette il grigio accanto al nero per chiamarlo bianco; e quando lo si mette accanto al bianco per chiamarlo nero.
#14. Sfrontatezza
Un tiro insolente è quando, dopo molte domande alle quali egli ha risposto, senza che le risposte fossero risultate a favore della conclusione che noi intendevamo, la conclusione che se ne vuole derivare, benché essa non segua affatto, si pone tuttavia come con ciò dimostrata e si proclama trionfalmente.
- Valente, Enrico(Autore)
Se l’avversario è timido o stupido, e noi stessi abbiamo molta sfrontatezza e una buona voce, ciò allora può riuscire assai bene. Questo stratagemma appartiene alla fallacia non causae ut causae (inganno prodotto dall’assumere la
non-causa come causa).
#15. Tesi apparentemente assurde
Se abbiamo formulato una tesi paradossale, per la cui dimostrazione ci troviamo in imbarazzo, presentiamo all’avversario qualche tesi corretta, ma non corretta con piena evidenza, perché la accetti o la rifiuti, come se volessimo ricavarne la dimostrazione.
Se egli la rifiuta per diffidenza, allora lo portiamo ad absurdum e trionfiamo; ma se egli la accetta, abbiamo detto per il momento qualcosa di ragionevole, e dobbiamo proseguire; oppure aggiungiamo lo stratagemma precedente e dichiariamo che da esso è dimostrato il nostro paradosso.
Qui ci vuole la più grande impudenza, ma accade nell’esperienza, e vi sono persone che praticano tutto ciò per istinto.
#16. Cercare contraddizioni
Argumenta ad hominem
. Davanti a una affermazione dell’avversario, noi dobbiamo cercare se essa, in qualche modo, all’occorrenza anche solo apparentemente, non sia per caso in contraddizione con qualcosa da lui detto o concesso in precedenza; o con le tesi di una scuola o di una setta da lui lodate e approvate, o con le azioni dei membri di tale setta, o anche soltanto dei membri non autentici e apparenti, o con la sua stessa condotta.
Se egli, ad esempio, difende il suicidio, gli si ribatte subito: “Perché non ti impicchi?”; o se egli afferma che non è piacevole soggiornare a Berlino, subito gli si rinfaccia: “Perché non parti subito con il primo postale espresso?”.
Sarà possibile in qualche modo cavar fuori una vessazione.
#17. Distinzione a posteriori
Se l’avversario ci incalza con una controprova, ci potremo spesso salvare con una sottile distinzione, alla quale prima non abbiamo affatto pensato, quando la questione consente qualche doppio senso o un doppio caso.
#18. Sviare il discorso
Se osserviamo che l’avversario ha intrapreso un’argomentazione con cui ci batterà, non dobbiamo permettergli di concluderla, ma dobbiamo interrompere, allontanare o deviare per tempo il corso della disputa, e condurre ad altre tesi; in breve, riuscire a ottenere una mutatio controversiae (cambio del tema della controversia).
#19. Generalizzare
Se l’avversario ci sollecita esplicitamente ad addurre qualcosa contro qualche punto determinato della sua affermazione, mentre noi non abbiamo nulla di adeguato, allora dobbiamo tentare di generalizzare la tesi, e poi parlare contro questa generalizzazione.
Dobbiamo dire perché non c’è da fidarsi di una determinata ipotesi fisica, e parliamo allora della fallacia della conoscenza umana, fornendone parecchi esempi.
#20. Trarre conclusioni
Se lo abbiamo interrogato sulle premesse ed egli le ha ammesse, non dobbiamo chiedergli anche la conclusione, bensì trarla addirittura noi stessi.
Quando anzi manca ancora l’una o l’altra delle premesse, accogliamola come ugualmente concessa e tiriamo la conclusione. Ciò allora è un’applicazione della fallacia non causae ut causae.
#21. Controargomentazione
In presenza di un argomento dell’avversario soltanto apparente o sofistico da noi intuito, possiamo sì annullarlo discutendone la sua capziosità e la sua fittizia apparenza, ma è meglio affrontarlo con un contro-argomento altrettanto apparente e sofistico, e liquidarlo in tal modo: non importa infatti la verità, ma la vittoria.
Se egli, ad esempio, utilizza un argumentum ad hominem, allora è sufficiente invalidarlo con un contro-argomento ad hominem (ex concessis); ed è in generale più breve utilizzare all’occorrenza un argumentum ad hominem, al posto di una lunga discussione sulla vera natura della cosa.
#22. Petitio principii
Se egli esige che concediamo qualcosa, da cui il problema dibattuto seguirebbe immediatamente, respingiamola, facendola passare per una petitio principii; infatti egli e gli ascoltatori considereranno facilmente una tesi strettamente affine al problema, come identica al problema stesso, e in tal modo gli sottrarremo il suo argomento migliore.
#23. Esagerazione
La contraddizione e il diverbio eccitano a esagerare l’affermazione. Possiamo dunque eccitare l’avversario con la contraddizione, e spingere oltre la verità un’affermazione eventualmente vera in sé e propriamente delimitata; e quando abbiamo confutato questa esagerazione, sembrerà da noi confutata anche la sua tesi originaria.
Dobbiamo invece guardare noi stessi dal farci indurre, mediante la contraddizione, all’esagerazione o a un’ulteriore estensione della nostra tesi.
Spesso anche l’avversario cercherà direttamente di estendere la nostra affermazione oltre i limiti entro cui l’abbiamo posta: dobbiamo allora porre subito un freno, e ricondurlo alla linea di confine della nostra affermazione con un “tanto ho
detto, e niente altro”.
#24. Forzatura della consequenzialità
Abuso della consequenzialità. Dalla tesi dell’avversario si inferiscono a forza, attraverso conclusioni false e deformazioni dei concetti, tesi che non sono in essa contenute, e che non costituiscono affatto l’opinione dell’avversario, ma che invece sono assurde e pericolose.
E poiché sembra che dalla sua tesi nascano tesi tali in contraddizione o con se stesse o con verità riconosciute, ciò vale allora come una confutazione indiretta, apagoge, ed è di nuovo un’applicazione della fallacia non causae ut causae.
#25. L’istanza, ovvero l’esempio contrario
Esso riguarda la apagoge mediante una istanza, exemplum in contrarium.
La επαγωγη, inductio, necessita di una grande quantità di casi per formulare la sua tesi universale; la απαγωγη richiede di enunciare soltanto un singolo caso che non concordi con la tesi, ed essa è demolita: un caso simile si chiama istanza, ενστασις, exemplum in contrarium, instantia.
Ad esempio, la tesi: “Tutti i ruminanti sono cornuti” è invalidata mediante l’unica istanza dei cammelli. L’istanza è un caso di applicazione della verità generale, qualcosa da sussumere sotto il concetto principale di questa, ma per il quale quella verità non vale, e di conseguenza è completamente demolita.
Ma a questo punto possono verificarsi degli inganni; nelle istanze dunque presentate dall’avversario, noi dobbiamo prestare attenzione a ciò che segue:
1) se l’esempio è effettivamente vero. Ci sono problemi la cui unica, vera soluzione consiste nel fatto che il caso non è vero: ad esempio, molti miracoli, storie di fantasmi ecc.
2) se rientra effettivamente sotto il concetto della verità enunciata: ciò, spesso, è soltanto apparente e risolvibile con una rigorosa distinzione;
3) se è effettivamente in contraddizione con la verità enunciata: anche questo è spesso soltanto apparente
#26. Ritorsione dell’argomento
Un tiro brillante è la retorsio argumenti (ritorsione dell’argomento), quando l’argomento che l’avversario vuole usare a suo favore può essere usato meglio contro di lui.
Se ad esempio egli dice: “È un bambino: bisogna giustificarlo!”, la retorsio è: “Proprio perché è un bambino, si deve punirlo, affinché non perseveri nelle sue cattive abitudini”.
#27. Sfruttare l’ira
Se in un argomento l’avversario inaspettatamente si arrabbia, si deve allora insistere con forza sullo stesso argomento: non soltanto perché è bene suscitare l’ira dell’avversario, ma poiché si deve supporre che si è toccato il lato debole del suo ragionamento, e che a questo punto gli si possa nuocere ancor più di quanto sembri al momento.
#28. Avanzare un’obiezione non valida ma spettacolare
Questo è soprattutto utilizzabile, quando degli studiosi discutono davanti ad ascoltatori ignoranti. Quando non si ha un argumentum ad rem e neppure uno ad hominem, se ne farà uno ad auditores (rivolto agli uditori), cioè una obiezione non valida, la cui non validità però può essere riconosciuta soltanto dall’esperto: tale è l’avversario, ma non gli ascoltatori.
Ai loro occhi egli sarà dunque sconfitto, tanto più se l’obiezione mette in ridicolo la sua affermazione; la gente è subito propensa al riso, e quelli che ridono si hanno dalla propria parte. Per mostrare la nullità dell’obiezione, l’avversario dovrebbe affrontare una lunga discussione e rifarsi ai princìpi della scienza o a qualcosa d’altro: ma in ciò non trova facilmente ascolto.
Esempio. L’avversario dice: “Nella formazione delle catene montuose originarie, la massa da cui il granito e tutte le rimanenti catene montuose si cristallizzano era liquida per il calore, cioè liquefatta. Il calore doveva essere di circa 200° : la massa si cristallizzò sotto la superficie del mare, che la ricopriva”.
Noi opponiamo l’argumentum ad auditores, che a quella temperatura, anzi già molto prima, a 80°, il mare si sarebbe da lunghissimo tempo consumato per l’ebollizione, e fluttuerebbe nell’aria come vapore.
Gli ascoltatori ridono. Per batterci, egli dovrebbe mostrare che il punto di ebollizione non dipende soltanto dal grado termico, ma altrettanto dalla pressione atmosferica; e questa, non appena la metà circa dell’acqua marina fluttua sotto forma di vapore, è talmente elevata che nemmeno a 200° si verifica l’ebollizione.
Ma egli non arriva a spiegarlo, poiché per gli ignari di fisica sarebbe necessaria una trattazione.
#29. Diversione
Se ci si accorge di essere battuti, si fa allora una diversione; si comincia cioè improvvisamente con qualcosa del tutto diverso, come se rientrasse nel tema e fosse un argomento contro l’avversario.
Ciò accade con una certa moderazione, quando la diversione continua a riguardare in generale il thema quaestionis; con insolenza, quando riguarda soltanto l’avversario e non parla affatto del tema.
#30. Appellarsi all’autorità
L’argumentum ad verecundiam
(argomento diretto al profondo rispetto), anziché le ragioni, usa le autorità adeguate alle conoscenze dell’avversario. Unusquisque mavult credere quam judicare (ognuno preferisce credere, che giudicare), dice Seneca [De vita beata, I, 4].
- Seneca, Lucio Anneo(Autore)
Soprattutto efficaci sono le autorità che l’avversario non comprende affatto. Gli incolti hanno un particolare rispetto per le frasi retoriche greche e latine. All’occorrenza, le autorità si possono alterare, falsificare, inventare. Si possono anche usare come autorità pregiudizi generali.
#31. Dichiarazione di incompetenza
Quando non si ha nulla da addurre contro le ragioni esposte dall’avversario, ci si dichiari con sottile ironia incompetenti: “Quello che Lei dice supera la mia debole capacità di comprensione: può essere molto giusto, ma io non posso capirlo, e mi astengo da qualsiasi giudizio”.
Con ciò si insinua in quegli ascoltatori presso i quali si gode di stima che la cosa è assurda. Così, all’apparire della Critica della Ragione pura, o ancor più all’inizio dello scalpore da essa suscitato, molti professori della vecchia scuola eclettica dichiararono: “Noi non la comprendiamo”, e credettero con ciò di averla liquidata.
Quando però alcuni seguaci della nuova scuola mostrarono loro che avevano ragione e che realmente non l’avevano capita, essi diventarono di pessimo umore.
Si può usare lo stratagemma soltanto quando si è sicuri di godere presso gli ascoltatori di una stima decisamente maggiore rispetto all’avversario: ad esempio, quella di un professore rispetto a uno studente. In realtà, ciò appartiene allo stratagemma precedente, ed è un far valere, in modo particolarmente malizioso, la propria autorità anziché le ragioni.
Il contrattacco è: “Mi consenta: con la Sua grande acutezza, deve essere per Lei facile comprenderlo, ed è colpevole solo la mia cattiva esposizione”; e poi propinargli l’argomento in modo tale che egli debba nolens volens (volente o nolente) comprenderlo e divenga chiaro che prima non lo aveva effettivamente compreso.
Ed è questa la ritorsione: egli voleva insinuarci l’“assurdo”, e noi gli abbiamo dimostrato l’“incomprensione”. Entrambe le cose con squisita cortesia.
#32. La categoria odiosa
Possiamo rapidamente annullare o almeno rendere sospetta una affermazione a noi opposta dall’avversario, riportandola sotto una categoria odiosa, anche se essa sia in relazione con questa solo attraverso una somiglianza o in modo non vincolante.
Ad esempio: “Questo è Manicheismo, questo è Arianesimo, questo è Pelagianesimo, questo è Idealismo, questo è Spinozismo, questo è Panteismo, questo è Brownianismo, questo è Naturalismo, questo è Ateismo, questo è Razionalismo, questo è Spiritualismo, questo è Misticismo ecc.”.
Qui supponiamo due cose:
1) che quella affermazione è realmente identica a quella categoria, o almeno vi è contenuta, portandoci a esclamare: “Oh, questo lo conosciamo già!”;
2) che questa categoria è già stata completamente confutata e non può contenere una sola parola vera.
#33. Vero in teoria, falso in pratica
“Ciò può essere giusto in teoria, ma nella pratica è falso”. Mediante questo sofisma, si ammettono le ragioni, ma si negano le conseguenze, in contraddizione con la regola a ratione ad rationatum valet consequentia (dalla ragione all’effetto vale la conclusione logica).
Quella affermazione pone un’impossibilità: ciò che è giusto in teoria deve anche corrispondere nella pratica: se non corrisponde, vuol dire che c’è un errore nella teoria, qualcosa è passato inosservato e non è stato calcolato; di conseguenza è falso anche in teoria.
#34. Incalzare l’avversario
Se l’avversario non dà una risposta diretta a una domanda o a un argomento o non prende alcuna posizione, ma mediante una contro-domanda, una risposta indiretta o addirittura qualcosa che non ha relazione con l’oggetto, è elusivo e vuole parare altrove, questo è allora un segno certo che noi (talora a nostra insaputa) abbiamo colpito un punto debole: da parte sua, è un ammutolimento relativo.
Sul punto da noi eccitato si deve quindi insistere e incalzare l’avversario, anche quando non vediamo ancora in che consiste propriamente la debolezza che abbiamo colpito.
#35. Argomento di utilità
Non appena praticabile, esso rende superflui tutti gli altri stratagemmi; anziché influire con ragioni sull’intelletto, si influisca con motivi sulla volontà, e l’avversario, come pure gli ascoltatori, se hanno con lui lo stesso interesse, sono subito guadagnati alla nostra opinione, anche se questa fosse presa in prestito dal manicomio, poiché pesa di più una briciola di volontà che un quintale di ragione e di persuasione.
Naturalmente questo funziona soltanto in determinate circostanze. Se si può far sentire all’avversario che la sua opinione, se fosse valida, danneggerebbe notevolmente il suo interesse, egli la lascerebbe andare come un ferro rovente che avesse afferrato imprudentemente.
Un religioso, ad esempio, difende un dogma filosofico: gli si faccia osservare che esso è indirettamente in contraddizione con un dogma fondamentale della sua chiesa, ed egli lo abbandonerà.
#36. Sproloquiare
Stupire e sconcertare l’avversario con un insensato torrente di parole, e impressionarlo gabellandogli una sciocchezza che suoni dotta o profonda, tale da privarlo dell’udito, della vista e del pensiero, spacciando ciò come la prova più incontestabile della propria tesi.
#37. Approfittare del cattivo esempio
Se l’avversario ha ragione sull’argomento, ma sceglie per fortuna una cattiva prova a sostegno, ci riuscirà allora facile
confutare questa prova, facendo passare ciò per una confutazione dell’argomento.
In fondo, ciò riconduce al fatto che noi spacciamo un argumentum ad hominem per uno ad rem. Se a lui o alle persone circostanti non viene in mente una prova più giusta, allora abbiamo vinto.
Come se uno, ad esempio, adducesse per l’esistenza di Dio la prova ontologica, che è molto confutabile. In questo modo molti cattivi avvocati perdono una buona causa: essi la vogliono difendere con una legge inadeguata, e quella adeguata non viene loro in mente.
#38. Argumentum ad personam
Quando si nota che l’avversario è superiore e che si avrà torto, si diventi aggressivi, offensivi, villani, passando dal tema della discussione alla persona del contendente (argumentum ad personam): è un appello delle forze dello spirito a quelle del corpo o all’animalità.
L’unica contro-regola sicura è quella che già Aristotele dà nell’ultimo capitolo dei Topica: non disputare con il primo venuto, ma soltanto con coloro che disputano con ragioni e non in posizione di forza, e che apprezzano la verità anche dalla bocca dell’avversario.
La disputa tuttavia, come attrito di teste, è spesso di reciproco vantaggio per la rettifica dei propri pensieri e anche per la produzione di nuove opinioni; ma entrambi i contendenti devono essere, per dottrina e intelligenza, quasi allo stesso livello.
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