Il falso mito del talento naturale discusso nel libro La trappola del talento di Geoff Colvin si fonda sui più recenti studi scientifici riguardanti le grandi performance nel lavoro e nello sport.
Le conclusioni di questi studi contraddicono le opinioni più diffuse sul talento naturale e le doti innate come l’intelligenza o la memoria, infatti, queste avrebbero un ruolo molto più limitato di quanto si creda. L’esercizio continuato, faticoso e ripetuto ha invece una rilevanza decisiva.
La gente è convinta che per cantare, comporre o suonare occorra un dono naturale o un talento speciale, ma gli studi riportati da Colvin giungono tutti a conclusioni che contraddicono gran parte di quello che noi crediamo di sapere sulla bravura eccezionale.
Il talento naturale è sopravvalutato
Nel 1992 un gruppo di ricercatori inglesi fece un vasto esperimento per individuare i segni del talento musicale, ma non riuscì a trovarlo. Dopo aver esaminato 257 allievi delle scuole musicali e divisi in gruppi a seconda dell’abilità, i ricercatori si accorsero che i segni rivelatori del genio musicale precoce semplicemente non c’erano.
Quale elemento, allora, differenziava i più bravi dai meno bravi?
Lo studio fornì una sola risposta a questa domanda: quanto si esercitavano. Non esisteva nessun “percorso rapido” per ottenere grandi risultati.
E Mozart allora?
Mozart componeva musica a cinque anni, si esibiva in pubblico come pianista e violinista a otto, creò centinaia di opere, alcune delle quali considerati autentici tesori della cultura occidentale, nell’arco di una vita di soli trentacinque anni. Se non è talento questo, allora cosa è?
Wolfgang ricevette fin dalla più tenera età una severissima istruzione musicale da parte del padre musicista Leopold. Le sue prime composizioni di bambino non sono particolarmente originali. Il primo capolavoro, il Concerto per piano n. 9, venne composto quando aveva ventun anni.
Un’età giovanile, certo, ma a quel punto Wolfgang aveva alle spalle già diciotto anni di duro lavoro formativo. Qualsiasi scintilla divina Mozart possa aver avuto dentro di sé, commenta Colvin, non gli ha permesso di realizzare un’opera straordinaria in tempi brevi e con facilità, al contrario di quanto comunemente si crede: Mozart diventò Mozart impegnandosi sino allo sfinimento.
Il talento Tiger Woods?
La storia del fenomeno del golf Tiger Woods è simile a quella di Mozart. Earl Woods era un esperto e appassionato golfista che ha cominciato a istruire suo figlio Tiger fin dalla nascita. A sette mesi lo teneva sul seggiolone per ore a guardare il padre che tirava le palline in garage. Prima che Tiger compisse due anni, padre e figlio giocano e si allenavano regolarmente sul campo da golf.
Quando a 19 anni realizzò la sua prima straordinaria performance a livello internazionale, aveva alle spalle almeno 17 anni di pratica intensiva. Woods non ha mai spiegato i suoi successi con il talento innato, ma solo con il duro addestramento: lavoro, lavoro e ancora lavoro.
Anche se si esaminano le vite dei grandi uomini d’affari, come Jack Welch, Bill Gates, John D. Rockefeller, si scopre che nessuno di loro mostrò da giovane una particolare inclinazione per gli affari, salvo uno spiccato interesse per il denaro e un fortissimo impulso ad arricchirsi. Hanno lavorato con il massimo impegno per molti anni, per imparare tutto il possibile nel campo di loro interesse.
Intelligenza e memoria, quanto contano?
Le doti intellettive e mnemoniche hanno un ruolo molto limitato nel raggiungimento dei grandi risultati. In una vasta gamma di ambiti, compreso quello degli affari, il legame tra intelligenza e capacità specifica è debole e in alcuni casi inesistente.
Quando i ricercatori hanno confrontato il quoziente intellettivo (Q.I) dei venditori con i risultati effettivi delle vendite, non hanno trovato alcuna corrispondenza.
Anche negli scacchi il Q.I. non predice in modo affidabile la performance. Sembra difficile crederci, perché siamo soliti pensare che il gioco degli scacchi sia un esercizio di pura intelligenza. Eppure, i ricercatori hanno riscontrato che alcuni Grandi Maestri di scacchi hanno un Q.I. al di sotto della media.
Uno studio condotto su bambini che iniziavano a giocare a scacchi ha evidenziato come il quoziente intellettivo non fosse di alcuna utilità per prevedere quanto rapidamente avrebbero fatto progressi. Più i bambini facevano pratica e progredivano, più il Q.I. perdeva importanza. Il Q.I. è dunque un discreto elemento di previsione della performance per un compito sconosciuto, ma quando una persona svolge un certo lavoro da qualche anno, il Q.I. dice poco o nulla sulla sua performance.
Anche l’altra capacità generalmente associata al successo, una memoria prodigiosa, è stata ridimensionata dagli studi più recenti. La capacità mnemonica, del resto, è più formata che innata.
I Grandi Maestri di scacchi che giocano in simultanea e bendati (“alla cieca”) numerose partite contro avversari di livello inferiore non hanno una memoria sovrumana. In realtà grazie alla pratica hanno acquisito un’incredibile capacità di ricordare le posizioni reali dei pezzi sulla scacchiera, ma fuori da questo campo specifico la loro memoria non è superiore alla media.
- Gladwell, Malcolm(Autore)
10 anni di pratica, la regola!
Studiando le performance dei violinisti, si scoprì che la cosa più importante per fare progressi era l’esercizio solitario. I violinisti migliori in media si esercitavano da soli circa 24 ore alla settimana, gli altri soltanto nove ore alla settimana.
Le ore di esercizio sono dunque strettamente collegate alla qualità della prestazione, e per questa ragione tutti avevano sempre impiegato molti anni per raggiungere l’eccellenza.
Anche negli scacchi si è notato che nessuno raggiunge i massimi livelli senza almeno un decennio di studio intensivo. Persino il mitico Bobby Fischer divenne Grande Maestro all’età di sedici anni dopo aver studiato in modo ossessivo da nove anni.
Le tre sorelle ungheresi Polgar divennero le più forti scacchiste di tutti i tempi dopo essere state sottoposte a un esperimento dal padre Laszlo Polgar, convinto che i fuoriclasse non fossero tali per nascita ma per formazione. Tutte e tre raggiunsero livelli mondiali di prim’ordine anche se i risultati migliori furono di Judit, la sorella che si impegnava più ore al giorno.
La regola dei dieci anni di addestramento assiduo per raggiungere i livelli più elevati è stata successivamente confermata da altre ricerche in numerosi ambiti. Se una persona raggiunge una condizione di eccellenza è solo grazie ai molti anni di lavoro, conclude Colvin.
L’esercizio intenzionale
Le differenze tra coloro che realizzano elevate prestazioni e le persone normali sono dunque il risultato di un periodo di impegno, lungo tutta la vita, per migliorare la performance in un campo specifico.
Per continuare a progredire anche dopo aver raggiunto quelli che una persona considera i propri limiti naturali, la normale pratica non è sufficiente. Occorre qualcosa di più: l’esercizio intenzionale, cioè un’attività espressamente finalizzata al miglioramento in cui si cercano di identificare con precisione gli elementi della performance da migliorare, per poi lavorare intensamente su quelli.
Coloro che raggiungono grandi risultati, infatti, isolano aspetti molto specifici della loro attività e si concentrano solo su uno di essi finché non fanno progressi, poi passano al successivo. Per questa ragione agli inizi diventare molto bravi è estremamente difficile senza l’aiuto di un maestro/insegnante/coach.
Quando manca una visione chiara e obiettiva della prestazione, infatti, è impossibile scegliere le migliori modalità di esercizio. Ogni persona ha una propria “zona comfort” (le cose che sa far bene per abitudine), una “zona di apprendimento” (le cose che non sa fare bene) e una “zona panico” (le prestazioni giudicate impossibili da realizzare).
È possibile fare progressi solo scegliendo attività che fanno parte della zona di apprendimento, cioè quelle appena fuori dalla propria portata.
Una seconda caratteristica dell’esercizio intenzionale è la ripetizione, anche ossessiva. I grandi giocatori di pallacanestro, tennis, golf o baseball hanno passato anni e anni, tutti i giorni per ore e ore, a tirare a canestro e a colpire o lanciare una pallina.
Occorre anche avere un criterio per valutare i risultati, cioè un feedback sempre disponibile. Per gli sport di solito questo non è un problema, mentre per altre attività, come suonare uno strumento, è indispensabile il giudizio di una persona esperta o di un maestro.
L’esercizio intenzionale non è mai rilassante, e richiede un notevole sforzo di concentrazione. Mentre le attività “automatiche” che sappiamo fare bene sono piacevoli, l’esercizio intenzionale non è mai divertente.
Critiche alla teoria del falso mito del talento naturale di Geoff Colvin
La teoria di Geoff Colvin sul talento è stata oggetto di diverse critiche da parte di vari autori e studiosi. Le critiche principali riguardano la sua affermazione che il talento naturale gioca un ruolo molto limitato nel successo, enfatizzando invece l’importanza della pratica deliberata.
Angela Duckworth, autrice del libro “ “ critica la teoria di Colvin sostenendo che essa trascura l’importanza di attributi come la passione e la perseveranza.
La Duckworth afferma che il talento non può essere completamente scartato e che il “grinta” è altrettanto cruciale per il successo. *Ne ho parlato nel post: Grinta. Il segreto per raggiungere il successo e risultati eccezionali.
David Shenk autore di “The Genius in All of Us” sostiene che Colvin semplifica eccessivamente la complessità del talento. Shenk enfatizza che il talento è una combinazione di genetica, ambiente e pratica, e che le persone possono sviluppare il loro talento attraverso sforzi mirati.
Lo psicologo Robert Sternberg, noto per la sua teoria dell’intelligenza triarchica, critica la teoria di Colvin sostenendo che la pratica deliberata da sola non è sufficiente per spiegare il successo. Sternberg afferma che fattori come la creatività, la motivazione e la capacità di adattamento giocano un ruolo significativo nel determinare il talento e il successo.
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Bibliografia
“La trappola del talento” di Geoff Colvin
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